L’altra verità. Diario di una diversa, Alda Merini
Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi
E’ sempre tardo pomeriggio o per lo meno le vetrate ingiallite e appannate e il grande lucernario che illumina la sala del Manicomio Paolo Pini di Milano non lasciano mai intravedere il sole. Sbirciando da dietro le sbarre, si intravedono solo donne, qualcuna anche bella, con i capelli disfatti, tutte con lo stesso vestaglione azzurro portato a mo’ di grembiule e gli zoccoli ai piedi. Alda è quella con il viso dolce, di ragazzina picchiata e offesa che peserà sì e no trenta chili.
Fino a che non si ritrovasse lì era una poetessa che trascorreva il suo tempo a curare le due figlie e a dare ripetizioni agli alunni. Una sera, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, dà in escandescenze e suo marito non trova di meglio che chiamare un’autombulanza, non prevedendo certo che l’avrebbero portata in manicomio dove resterà ben dieci anni. Appena internata le parte un urlo lancinante. Non era forse la sua una ribellione umana? Viene legata e imbottita di iniezioni calmanti.
“Credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire”.
Il manicomio è saturo di fortissimi odori. Molta gente orina e defeca per terra altra si strappa i capelli, si lacera le vesti o canta sconce canzoni.
“Se Dio ha dato il libero arbitrio perché scegliessimo il bene ed il male, perché ce l’ha tolto con la pazzia?”
Le notti per i malati, su quei cuscini su cui forse il riposo non è mai disceso, sono particolarmente dolorose. I farmaci che le infermiere propinano sono o troppo tenui o sbagliati e perciò alla sera quel grave inferno che è il Paolo Pini si riempie di grida, invettive, sussulti strani, miagolii, come se si fosse in un connubio di streghe, in un raduno infernale. Le cure a basso livello in questo reparto sono impensate, sicchè alle più tempestose viene propinata una serie di elettroshock.
Con il tempo, senza rendersene conto, Alda va incontro a quello strano fenomeno che gli psichiatri chiamano “spedalizzazione” per cui rifiuti il mondo esterno e cresci unicamente in un mondo estraneo a te e a tutto il resto del mondo, perdendo addirittura tutti i legami affettivi col mondo di fuori. Quel dolce concetto della poetessa di essere un fiore che cresce in un’aiola deserta.
Le resistenze sono notevoli nel rapportarsi con certe “bestie” che sotto i veleni delle medicine hanno perso del tutto la loro femminilità e identità. Facce con larghe chiazze di vino, unghie adunche e un ghigno feroce tra le labbra.
Le infermiere sono esseri privi di qualsiasi sentimento umano che non consentono alle malate nemmeno la libertà nel lavarsi: vengono tutte allineate davanti a un lavello comune, denudate, lavate e asciugate in un lenzuolo lercio e puzzolente. Sono donne di scarsa cultura che trattano le pazienti come schiave.
Il manicomio è una istituzione falsa, creata sui valori della fratellanza e della comprensione umana, che altro non serve che a scaricare gli istinti sadici dell’uomo. Il carrello di medicine passa per farti credere in un aiuto che non esiste.
Alda ne assale uno rovesciandolo, non vuole che le altre malate prendano quelle porcherie credendo nella guarigione attraverso i farmaci. Viene considerata una malata ribelle e per questo punita.
Alda ha sete di verità, non capisce come possa essere capitata in questo inferno, e difende costantemente la diversità come valore e non come deformità. Sotto quella brutta e umiliante vestaglia azzurra c’è un’anima che non è stata mai tanto luminosa e vitale.
Se non fosse stato per la psicoanalisi e per la scrittura, lei in questo luogo orrendo ci sarebbe morta. Il dottor Enzo Gabrici, il medico che la segue, le mette una macchina da scrivere tra le mani e le sue lettere, che raccoglierà nel libro dal titolo “Lettere al dottor G.”, sono la dimostrazione di come in manicomio è ben difficile uccidere lo spirito iniziale, lo spirito dell’infanzia, che non è, né potrà mai essere corrotto da alcuno.
In questo disordine morale e reale Alda conosce Pierre, anch’egli ricoverato nella struttura ma nel reparto uomini lontano da lei, dal quale avrà una figlia. L’amore con Pierre l’accompagna nei giorni di lieve felicità, come in quelli di enorme shock.
Molte vecchiette vengono fatte morire a forza di sedativi e questo suscita in Alda un odio feroce verso tutti e tutte le cose, un tale impeto di rivolta da incendiare l’ospedale.
Dopo che la poetessa come Dante, ha visitato l’inferno della passione, sarà riuscita a “riveder le stelle”?
Vent’anni dopo nel 1986 Alda Merini pubblica il suo Diario pieno di orrore e fascino, in cui ripercorre gli anni di internamento in manicomio mescolando la cruda realtà del luogo, con la più intima natura dell’animo umano. Al termine del suo Diario ci tiene a dire che il vero inferno è fuori, accanto agli altri che ti giudicano, ti criticano e non ti amano. E che la malattia mentale non esiste ma esistono gli esaurimenti nervosi, esistono le pene familiari, la responsabilità dei figli, la fatica di crescerli ed esiste anche la fatica di amare. Tutto questo lo dice con quel tono di grazia di una forza poetica che è cara a chi ha dovuto pagare una posta troppo alta per vivere.
Una Merini che riserva un posto speciale a quelli che sanno non fare rumore, per accomodarsi davanti ad una prospettiva terribile, terribilmente ben descritta in preda agli stati d’animo. Una presa di potere del sentire sul pensare. Un abbraccio fraterno a quelle anime che non lo hanno mai ricevuto e si sono lasciate vivere senza mai viversi, e ai pazzi avvolti in quel mistero di inaudita sofferenza che non è stata colta da nessuno. Una libertà sotto le vesti di una martire che attraverso la chiusura del proprio corpo, vede finalmente sprigionarsi la propria anima. Una vita goduta nel pieno della sua potenza a dispetto di tutto e di tutti, amando anche l’inferno, perché la vita è spesso un inferno.
E’ un inchiostro particolare quello che usa la giovane poetessa milanese bocciata in italiano per entrare al Liceo Manzoni, la poetessa tra le più affascinanti del nostro panorama letterario contemporaneo, un inchiostro che aveva bisogno solo del suo tempo per asciugarsi e dimostrarci come la scrittura creativa sia l’arte del sentire.