L’angolo dell’umanista: dal buco della serratura
Tra i molti nomi di portata mondiale, da Kant a Hegel, da Goethe a Schiller, quello di Friedrich Hölderlin merita qualcosa di più di una semplice menzione
Quella dell’idealismo tedesco e del classicismo di Weimar fu, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, l’ultima grande epoca della cultura europea, l’ultima volta che fu possibile guardare alla realtà con uno sguardo pieno di Senso. Tra i molti nomi di portata mondiale, da Kant a Hegel, da Goethe a Schiller, quello di Friedrich Hölderlin merita qualcosa di più di una semplice menzione.
Uomo tormentato dal suo genio purissimo, ebbe in comune con Nietzsche la conclusione della propria parabola esistenziale nelle tenebre della follia; con Leopardi, come si accorse Walter Benjamin, condivise l’aver creato nel regno dell’arte e della poesia, interamente sotto il segno della Gioventù. Considerato un minore per tutto l’Ottocento, fu Martin Heidegger, con il peso della sua autorevolezza e del suo genio filosofico, a rimetterlo assiso nel pantheon dei grandissimi dello spirito tedesco.
Per comprendere cosa fosse quel mondo, esiste una testimonianza di un valore quasi unico. Si tratta di una lettera del 1794 in cui Hölderlin racconta del suo primo incontro con Goethe, in casa di Schiller.
È merito di uno studioso profondo come Enzo Mandruzzato, averne riportato la parte centrale, nel saggio introduttivo all’edizione delle Liriche di Hölderlin, da lui curata per Adelphi. Scrive Hölderlin: “Entrai, accolto da un saluto cordiale. Feci appena caso a un estraneo, in fondo, il cui aspetto e poi anche un lunghissimo silenzio non facevano sospettare niente di speciale. Schiller dice il mio nome, a me dice il suo, ma non afferro. Lo saluto freddo, quasi senza guardarlo, indaffarato com’ero – dentro e fuori – con Schiller.
Lo sconosciuto per un pezzo non dice verbo. Schiller prende la rivista Thalia, dov’è pubblicato un frammento del mio Hyperion e la mia lirica al Destino e me la dà. Mentre Schiller s’allontana un momento, lo straniero prende la rivista dal tavolo dov’ero, la sfoglia sotto il mio naso sul frammento, senza dire una parola. Lo sentivo che diventavo rosso sempre di più. Avessi saputo quello che so adesso sarei diventato bianco come un lenzuolo. Ma era scritto che fosse il giorno di tutte le disgrazie.
Schiller torna, parliamo del teatro di Weimar, allo straniero escono di bocca parole d’un calibro che avrebbe destato sospetti, ma io non ho sospetti […]. Me ne vado…il giorno stesso, in una riunione di professori – pensa un po’ – scopro che in giornata da Schiller c’era stato Goethe…”. La dolcezza di questa descrizione, la semplicità, la superiore ironia di questo conciliabolo tra giganti, sono la migliore introduzione all’ultima epoca della nostra cultura, in cui l’Europa ha pensato in grande.