L’Europa tra passato e presente: Cronache di luce e di tenebra
Tra Croce e Sciascia, un altro nome deve essere fatto, tra quelli più rappresentativi dell’identità letteraria italiana del Novecento, quello di Eugenio Montale
In un tempo in cui il sentimento di amor patrio è costantemente afflitto non solo dalla brutta politica – elemento che, nella nostra storia, non è mancato quasi mai – ma da un’Italia sempre più dimentica di sé stessa, sempre più tronfia della propria ignoranza, che passa le sue giornate a riempire i social network di insulti di bassa lega – fa bene meditare sulla nostra identità, attraverso le pagine dei nostri grandi scrittori. Ed è possibile farlo attraverso la forma del racconto.
I racconti di Sciascia ci introducono nei misteri dell’identità siciliana, alfa e omega, anche in senso fisico-geografico, dell’identità italiana. Per quanto riguarda l’opera di Sciascia, la silloge “Il fuoco nel mare. Racconti dispersi (1947-1975)”, curata per Adelphi da Paolo Squillacioti nel 2010, seguendo un progetto di Maria Andronico Sciascia, la moglie dello scrittore, che fa da pendant a “Il mare colore del vino” – la raccolta di racconti ‘maggiore’, curata da Sciascia stesso, per Einaudi, nel 1973 – ha una felicità di tocco, una solarità di stile, una riuscita, degne dello Sciascia migliore.
Gli snodi della nostra identità si dipanano nei secoli, hanno il respiro di Dante, Petrarca e Boccaccio, per non parlare dell’età medioevale, della presenza della Chiesa, di Machiavelli, dei tempi di Roma antica e di quando, in epoca remota, gli Etruschi abitavano le regioni dell’Italia centrale e Pitagora, Parmenide, Zenone di Elea, Empedocle e Gorgia dettavano legge nella cultura ellenica, abitando le colonie della Magna Grecia. Forse da qui, da questo substrato identitario stracarico di elementi, la difficoltà che l’Italia, fin dai tempi dell’unificazione, ha dimostrato nel darsi una fisionomia politica e culturale all’altezza della sua tradizione.
Sciascia osservava la Sicilia per comprendere l’Italia. I suoi libri sono carichi di storie, atmosfere, colori, sapori, giochi di luce, come si conviene ad una perla del Mediterraneo. Ma qui c’è anche la gramigna, la malapianta, il seme del male che affligge il nostro paese. Che lo rende prigioniero di sé stesso, poco virtuoso nello sviluppare un’identità risorgimentale e repubblicana, che ha sempre fatto molta fatica ad affermare sé stessa.
Nell’opera di un altro grande del Novecento, seppure con modalità espressive e tematiche totalmente diverse, troviamo la stessa tensione tra passato e futuro, in Benedetto Croce. Il grande pathos liberale della sua opera, l’amore per Hegel e lo storicismo, tanto meschinamente frainteso in seguito, era anche l’anelito a che, in Europa e in Italia, prevalessero le forze del Bene e della Ragione.
Tanto Croce che Sciascia vissero, dunque, con passione e intensità il proprio tempo. Esponenti di un’Italia ormai scomparsa e sconosciuta, che guardava a Vico e Voltaire, a Goethe e Stendhal, testimoniano, al di là della politica, il meglio della nostra tradizione.
Tra Croce e Sciascia, un altro nome deve essere fatto, tra quelli più rappresentativi dell’identità letteraria italiana del Novecento, quello di Eugenio Montale. Sebbene la lucida disperazione di Montale, la sua parola adamantina e perfetta, lo rendano vicino ad esperienze di tipo europeo, a Rilke e T. S. Eliot, la sua italianità sofferta emerge nella frequentazione di Dante, che il poeta di Ossi di seppia ebbe per tutta la vita.
Ed è un’altra Italia, rispetto a quella a trazione fascio-leghista, che oggi imperversa. Un’Italia che coltivava il culto della Parola del passato, fatta di serietà ed argomenti pregnanti, di toni soffusi e gentili, di grandi voli metafisici intorno alla donna-angelo.
Un altro nesso con un pezzo della nostra storia recente, può essere sottolineato. A parte l’infelice polemica sui professionisti dell’antimafia, uscita sul “Corriere della sera” il 10 gennaio 1987 e disponibile nel volume, sempre a cura di Squillacioti (che, per Adelphi, sta curando le “Opere” del grande scrittore siciliano), intitolato “A futura memoria (se la memoria ha un futuro)”, Sciascia aveva in comune con Falcone e Borsellino un elemento fondamentale: di guardare alla Sicilia con occhio europeo.
Il famelico lettore di Voltaire e Stendhal, l’indagatore dell’Affaire Moro, fu anche lo scrittore che, con freddezza clinica e chirurgica, seppe scrutare in quei mali che affliggono il nostro paese da sempre.
(Foto, Paolo Borsellino e Leonardo Sciascia )