La (mia) Africa raccontata agli Italiani
Un’esperienza indimenticabile in Camerun, dalle grandi città ai villaggi, in una continua scoperta “dell’altro” che si fa incessante scoperta di sé: il resoconto di un viaggio straordinario
Samuel Eto’o una volta ha affermato che «l’Africa è uno stato mentale», in una sorta di affinità elettiva con Claudia Cardinale, secondo cui il Continente Nero «è un pensiero, un’emozione, quasi una preghiera». Un mistico moto dello spirito che esalta i sensi, elettrizza la mente, inebria il cuore con la sua struggente bellezza, la sua selvaggia purezza, perfino le sue ineffabili contraddizioni.
La mia Africa
La mia Africa ha assunto lo scorso dicembre i contorni del Camerun, il Paese che più di ogni altro può essere preso a modello dell’intero Continente: ne racchiude infatti tutte le peculiarità entro le proprie frontiere, al punto da essere soprannominato “Africa in miniatura”.
Qui montagne che perforano le nubi possono baciare la furia dell’Oceano, qui fiumi e laghi danno la mano al deserto e alla savana, qui ci si può imbattere in paesaggi incontaminati e in metropoli dalle vie quasi completamente prive di asfalto (eccetto le arterie principali): che pure, con le loro buche e i dossi, il traffico caotico, gli animali al pascolo ai lati delle carreggiate, non appaiono troppo diverse da quelle di Roma. Se non per le moto che fungono da taxi accanto ai “veri” taxi, nonché per la pressoché totale assenza di semafori e, soprattutto, di riferimenti urbani (non esistendo numeri civici che contrassegnino gli edifici).
Il Camerun dalle grandi città ai villaggi
Per conoscere l’anima più autentica del Continente Nero, però, occorre uscire dalle grandi città: e percorrere le strade di terra battuta con gli occhi sgranati dallo stupore mentre si susseguono palmeti e canneti, alberi di cacao e di guava, finché dal verde della foresta non emerge un villaggio, che si disvela in modo così commovente da lasciare senza fiato. È come un piccolo gioiello all’interno di uno scrigno secolare, con i suoi riti tribali, l’abbigliamento tradizionale, i prodotti tipici e i sapori genuini della terra, delle acque, del bosco.
E come non sussultare di meraviglia quando si prende in mano una noce di cocco appena colta dal ramo, e ci si rende conto di quanto diverso sia l’aspetto del frutto che siamo abituati a vedere in Occidente? Come non provare un fremito nel momento in cui si stringe un pezzo di canna da zucchero, e si ha l’opportunità di suggerne il succo dolce e prelibato? Come non andare in estasi la prima volta che si gusta il vino di palma, e il delizioso nettare artigianale schiude all’anima il sapore di un’alba d’estate?
L’Africa costringe a rimettere in gioco ogni certezza, in una continua scoperta dell’altro che si fa, allo stesso tempo, incessante e quasi estenuante scoperta di sé: cominciando dallo sguardo europeo, anzi italiano, che va costantemente rimodulato, come quando ci si deve adattare a un’improvvisa, accecante esplosione di luce.
Coloro che hanno l’occasione di visitare il Continente Nero raccontano spesso della semplicità, la spontaneità, la gioia di vivere dei suoi abitanti: il che è di certo vero, ma al contempo fortemente riduttivo.
L’Africa è una continua scoperta, dell’altro e di sé
L’Africa sono anche i legami familiari molto più estesi di quelli nostrani, simili a quelli che nelle società occidentali erano la norma fino al Secondo Dopoguerra: basti pensare che, nei dialetti locali (come accadeva, del resto, in greco antico), non esistono le parole per indicare zii e cugini, perché il fratello e la sorella di un genitore sono chiamati “mamma” e “papà”, i loro figli sono considerati fratelli e sorelle. E il senso dell’accoglienza è così forte che uno straniero dalla diversa pigmentazione può addirittura arrivare a essere onorato con l’attribuzione di un nome di famiglia.
L’Africa è guardare due consanguinei discutere anche aspramente, arrivare agli insulti e, a volte, perfino alle mani: e sapere già che, con tutta probabilità, nell’arco di qualche ora li si troverà a sorseggiare insieme una birra, scherzando come se la lite non fosse mai avvenuta.
L’Africa è vedere un intero Continente unirsi per tifare una Nazione che non è la propria, come in occasione della storica semifinale Mondiale che il Marocco ha giocato (e perso) contro la Francia: oltre i confini geografici, le rivalità etniche, le tensioni religiose che creano di fatto “due Afriche”, una subsahariana e una arabo-maghrebina, capaci però di riconciliarsi come per magia grazie a una semplice sfera di cuoio.
È per via di queste esperienze tanto straordinarie che, al solo pensiero di intraprendere il viaggio di ritorno, scatta immediatamente e inevitabilmente quella nostalgia dolceamara a cui è stato dato proprio il nome di mal d’Africa. Perché il Continente Nero non è, come qualcuno ha detto, a forma di cuore, ma è la freccia che quel cuore – che ogni cuore – colpisce: rendendo così impossibile non innamorarsene follemente, perdutamente, incondizionatamente.