La piccola Diana lasciata morire e la mamma uccisa dal figlio 14enne. Erano un intralcio
Per la madre che lascia la bimba morire di stenti, Diana è un ostacolo alla libertà. Per il 14enne la mamma un impedimento ai propri svaghi
Solo alcuni giorni fa, siamo stati sconvolti dalla notizia della morte della piccola Diana, bimba di 18 mesi, lasciata morire di stenti dalla mamma Alessia, episodio avvenuto a Milano dove le due vivevano.
La mamma di Diana non lavorava ma ostentava agiatezza
Durante l’arresto, Alessia ha ammesso di essere a conoscenza del possibilità che la figlia non sarebbe sopravvissuta a quel lungo abbandono. Aggiungendo poi, che la sua scelta è stata dovuta dalla necessità di “prendere aria”. Le descrizioni ottenute dalle interviste dei vicini, mostrano Alessia come una donna che amava mettere in mostra una vita diversa da quella reale. Indossava bei vestiti, usciva spesso, aveva il suo autista personale, il tutto nonostante non avesse un lavoro e vivesse solo con gli alimenti da parte del marito.
Una realtà parallela che trova come ultimo segno di un percepito ignaro della gravità del suo comportamento, nel desiderio da parte di Alessia di voler partecipare al funerale della piccola Diana.
Ma a distanza di poco tempo dalla morte di Diana, veniamo nuovamente scioccati da un altro episodio di cronaca, sempre consumato all’interno di un contesto familiare, dove però la vittima e il carnefice rivestono ruoli opposti. In questo secondo caso è un figlio, appena quindicenne, ad uccidere a coltellate la propria madre.
Questa volta è la provincia di Catania il territorio nel quale avviene l’ennesima tragedia, estremo sud, come a sottolineare una condizione non riferibile a precisi contesti territoriali.
Dentro le famiglie un inferno
Gli atti di violenza perpetrati all’interno del contesto familiare assumono sempre più i numeri spaventosi di una ecatombe. Cosa sta succedendo all’interno dei nostri nuclei familiari? L’impressione è, che in qualche modo la famiglia sia vittima di se stessa. Quel nucleo ben definito e strutturato che, in particolare la nostra cultura ci ha restituito, pare abbia lasciato il campo ad un modello molto più fragile e sempre meno capace di autodefinirsi.
La condizione di un benessere psicologico e relazionale dato dalla convivenza e dal modello antropologico della famiglia nucleare, già di per sé disfunzionale, è stato sovvertito e fortemente condizionato dal modello prettamente individualistico delle società più moderne.
Sono saltate gerarchie e ruoli, si sono allentate le funi di ancoraggio rispetto alla centralità e la riconoscenza dei compiti genitoriali da una parte e il ruolo di figlio dall’altro. Così facendo, ogni punto di riferimento viene improvvisamente rivoluzionato e non sempre ben definibile o facilmente riconosciuto. Il genitore nel caso della piccola Diana, vede la propria figlia come un ostacolo verso l’autorealizzazione, altresì nel caso del ragazzo di Catania, è il giovane figlio a vedere la propria mamma come un mero intralcio al proprio godere della vita.
Errore enorme quello di generalizzare, ancora più grave può risultare un’analisi fortemente condizionata dall’emotività che scaturisce da notizie del genere. Ma non possiamo esimerci dall’interrogarci sui fattori e le motivazioni che possono essere alla base di taluni comportamenti.
Una società di alienati
Esibizionismo, autoreferenzialità, nuove forme di narcisismo e forme di protagonismo sembrano ormai essere sempre più frequenti nelle strutture personali del cittadino moderno. Il quale, alle prese con il quotidiano utilizzo dei social deve, sempre e comunque, mostrarsi come protagonista di copertina di una vita meravigliosamente accattivante. Purtroppo dietro le pagine dei social, vi sono realtà molto più complesse e drammatiche, dove è difficile riconoscere il vero senso del buon vivere, un vivere sostituto dalla povertà di una mera illusione auto costruita.
È inutile, oggi, recriminare sull’inconsistenza del singolo soggetto rispetto ad un modello di società. Tutti insieme stiamo contribuendo ad alimentare la nuova dinamica antropologica che spinge ogni individuo verso un’inesorabile alienazione. Gli stessi feedback, che ognuno restituisce all’altro, contribuiscono a questa subdolo sistema.
Basta un “mi piace”
Un semplice “mi piace” oggi assume un valore, oltremodo, molto più potente di ciò che immaginiamo. Il tentativo di riscuotere ammirazione e riconoscimento da parte dell’altro diviene più vitale dell’aria che respiriamo.
La paura di non essere visti e quindi riconosciuti diviene un motore potentissimo che ci spinge vero l’aberrante cecità dell’altro stesso. Un figlio, come un genitore, se identificati come ostacoli al bisogno del proprio riconoscimento, perdono ogni significato relazionale, diventando solo oggetti di intralcio.
Resta difficile trovare il significato dietro certi fatti di cronaca, perché ciò che essi raccontano non appartiene all’umana comprensione se non ricondotti ad una logica di follia. Purtroppo ciò che vi è dietro è il frutto di una nuova forma psichica che il modello culturale sta forgiando.
In collaborazione con la Dott.ssa Graziella Menniti