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La prigione è per rieducare i delinquenti ma prima bonifichiamo la società in cui vive chi delinquente non è

Una carcerazione più accogliente e benevola porterà a realizzare la rieducazione del condannato? Una teoria tutta da provare

Carcere, prigione

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Che il problema esista, e che sia grave, non c’è alcun dubbio. Le cifre parlano chiaro e di per sé sono incontestabili. Come riportato dal dossier dell’associazione Antigone, appena pubblicato e disponibile anche online, “Il tasso di affollamento è del 130,4% (al netto dei posti conteggiati dal Ministero della Giustizia ma non realmente disponibili).

L’affollamento delle carceri

In 56 istituti penitenziari, oltre un quarto di quelli presenti in Italia, il tasso di affollamento è superiore al 150% con punte di oltre il 200% negli istituti di Milano San Vittore maschile e Brescia Canton Mombello”.

Le conseguenze sono intuibili, ma vale la pena di sottolinearle: stipare troppe persone in spazi inadeguati significa che le loro condizioni di vita ne usciranno peggiorate. Fino a renderle insopportabili. E a moltiplicare, quindi, i motivi di tensione.

O persino di disperazione. Vedi i suicidi in aumento. Innanzitutto, per numero e percentuali, quelli dei detenuti. Ma senza dimenticare i casi in cui a togliersi la vita sono invece gli agenti della polizia penitenziaria.

Il disagio, tuttavia, non è solo logistico. E perciò non va ridotto soltanto a delle misure pratiche.

Peggio ancora: “pratiche” nel senso più superficiale e fuorviante della parola. E nel classico schema degli interventi d’emergenza. Che invece di superare stabilmente gli squilibri strutturali, per l’oggi e per il domani, si limitano a cancellarne le tracce più evidenti con un colpo (o un colpetto) di spugna: con effetti tanto palesi nell’immediato quanto transitori rispetto al futuro.

Un futuro non chissà quanto lontano. Ma al contrario vicino. O vicinissimo.

Le carceri? Oggi le svuoti, domani si ricomincia

Se i dati sono indiscutibili, infatti, non lo sono altrettanto le proposte/intimazioni di chi vorrebbe cavarsela nel solito modo: ampliando i benefici per la “buona condotta” o ricorrendo addirittura a indulti e amnistie. Nonché, e qui il discorso si fa ancora più infido, attraverso il ridimensionamento dei reati e delle relative sanzioni penali, carcere compreso.

Giusto ieri, su Repubblica, un editoriale di Luigi Manconi riproponeva questa pseudo soluzione. E lo faceva con un titolo a suo modo esemplare: “Il tabù della clemenza”.

Da un lato, l’ex senatore del PD se la prendeva con le scelte del governo Meloni, lamentando che “la politica penale dell’esecutivo — quindici nuove fattispecie penali e inasprimento di tutte le pene — ha prodotto altri reati, altri arresti, altri detenuti, altri suicidi”.

Dall’altro, auspicava sia un incremento degli sconti di pena, portandoli da 60 a 75 giorni per ogni semestre di detenzione, sia il suddetto colpo di spugna. “Un provvedimento generale di clemenza: un intervento che consenta la riduzione drastica del sovraffollamento e la realizzazione delle condizioni per una più generale riforma del sistema penitenziario”.

Alle solite: ci si piazza a valle del fenomeno criminale e si rivolgono pensieri dolenti alle sorti di chi è finito in galera. Ci si appella al principio costituzionale dell’art. 27, secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, e se ne conclude che una carcerazione più accogliente e benevola porterà sicuramente, o quasi, a realizzare quel nobile intento.

Una teoria che diventa astrazione.

L’altra faccia della medaglia

E che tralascia, sino a rimuoverla, l’altra faccia della medaglia. L’altro lato della luna. La parte oscura che non c’è modo di illuminare.

Eh. Ma che possiamo farci?

È sempre questo, l’aspetto che viene accantonato. Sino a sacrificarlo del tutto. È la presenza, per nulla trascurabile e niente affatto episodica, di una criminalità che non ha nessun margine di recupero.

Soggetti che delinquono non già perché vi siano stati spinti dalle circostanze ma perché tale è la loro indole profonda. Oppure, in ogni caso, la loro scelta sistematica e definitiva. Come nelle mafie, siano esse autoctone o importate. Come nei clan su base etnica. Come nelle reti di spaccio. Come nei gruppi che nascono piccoli, le cosiddette “batterie”, ma che ambiscono a ingrandirsi. E per riuscirci sono pronte a tutto.

Preoccuparsi del pessimo stato delle nostre carceri va benissimo. A due condizioni, però.

La prima è che non lo si addebiti all’attuale governo, visto che il degrado non è scaturito all’improvviso negli ultimi due anni ma ha radici che affondano nel passato. Ivi inclusi i periodi, tutt’altro che brevi e comunque accomunati da molte linee strategiche, in cui a Palazzo Chigi ci sono stati esecutivi tecnici o di centrosinistra.

La seconda è che si ponga almeno con la stessa forza il problema, la necessità, l’urgenza, di reprimere i reati. Moltissimi dei quali avvengono di continuo – dalla vendita di droga ai borseggi sulle metropolitane, per citarne solo un paio – e ciononostante non sono stroncati come si dovrebbe.

La prigione serve a rieducare i delinquenti?

Perfetto. Ma insieme al risanamento delle carceri, anzi ancora prima, si provveda a bonificare il più possibile la società in cui vive – in cui è costretto a vivere – chi delinquente non è.

Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia