La sfida della Storia e lo stimolo del presente
Non apparirà esagerato affermare che l’effetto della televisione è peggiore di quello di alcune droghe
Quando, nel 1929, Ernst Jünger pubblicò “Il cuore avventuroso. Figurazioni e Capricci” (ed. it. Guanda), l’Europa brulicava di fermenti culturali di prima grandezza. Heidegger, in quello stesso anno, dava alle stampe “Kant e il problema della metafisica” e “Che cos’è metafisica?”, dopo aver sostituito Edmund Husserl alla cattedra di filosofia di Friburgo. Picasso era nel pieno della sua attività. Freud stava lavorando a “Il disagio della civiltà”.
Thomas Mann vinceva il Premio Nobel per la letteratura. Hannah Arendt dava alle stampe la sua dissertazione universitaria, intitolata “Il concetto d’amore in Agostino” e discussa con Karl Jaspers l’anno successivo. Benedetto Croce aveva da poco pubblicato la “Storia d’Italia dal 1871 al 1915”. Kafka era morto nel 1924. Rainer Maria Rilke nel 1926. Nel 1922, Mussolini aveva preso il potere in Italia. Nel 1933, Hitler lo avrebbe preso in Germania.
Il Novecento ebbe, da subito, questa caratteristica. Da una parte il dramma, la tragedia storica. Dall’altra il fuoco più alto dell’espressione filosofica, artistica, letteraria. Nei nostri tempi la tragedia sussiste (seppure, almeno per ora, in misura ridotta rispetto al secolo scorso), ma l’espressione culturale ha perso lo splendore che aveva un secolo fa.
Effetti televisivi
Come fecero notare già Horkheimer e Adorno, alla metà degli anni Quaranta del Novecento, nel capitolo della “Dialettica dell’illuminismo” (ed. it. Einaudi) dedicato all’industria culturale, cinema, radio, letteratura di consumo e televisione contribuiscono fortemente a creare individui conformisti e standardizzati sul modello della cultura dominante, quella del capitalismo consumistico.
La generazione di chi scrive questa riflessione, quella degli odierni quarantenni, nati tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del Novecento, è cresciuta interamente davanti alla televisione a colori. Finiti i compiti, i pomeriggi passavano tra cartoni animati, documentari, serie televisive, varietà, sport.
Mentre i giovani delle generazioni precedenti, anche solo per il bisogno pratico di passare il tempo, leggevano “Pinocchio” di Collodi, il Libro “Cuore” di De Amicis, magari Shakespeare, magari Goethe o Stendhal, oppure Dante e i classici greci e latini o quelli russi. Quelli che avevano la possibilità di accedere ad un’istruzione. Gli altri lavoravano e il lavoro, pure in condizioni di sfruttamento, è una grande scuola di vita.
La melassa televisiva ha un effetto di rammollimento della sostanza mentale e cerebrale. Vengono meno resistenza e capacità di concentrazione. Mentre la lettura comporta uno sforzo attivo, come lo sport o il suonare uno strumento. La televisione, invece, induce ad una completa passività e, dunque, inculca, avrebbe detto Adorno, rassegnazione e accettazione del dato. Non apparirà esagerato affermare che l’effetto della televisione è peggiore di quello di alcune droghe.
Effetti digitali
Da quando erano giovani le generazioni cui si accennava, molto è cambiato. Karl Polanyi, per descrivere l’apogeo e poi la crisi del sistema liberale, compose, negli anni Quaranta del Novecento, un’opera intitolata “La grande trasformazione” (1944, ed. it. Einaudi). Nessuna espressione ci sembra più adeguata, per descrivere la situazione intervenuta con Internet. Come nel feticismo della merce descritto da Marx, ma in un altro senso, a mediare i rapporti umani ci sono telefonini, computer e piattaforme digitali.
Siamo dipendenti dal telefono cellulare in una maniera affine alla tossicomania. Dimenticare il telefonino o il caricabatterie, mentre si parte per una vacanza, può assumere le dimensioni di un cataclisma. Con rimpianto, ricordiamo di vacanze in cui ci si metteva in fila davanti a una cabina telefonica, per dare notizie ai genitori. Oppure di appuntamenti, in cui chi era in ritardo costringeva l’altro ad aspettare, senza poter dare o ricevere notizie.
Internet è, dunque, l’ultima tra le grandi trasformazioni che lo sviluppo tecnologico ha imposto nella vita degli uomini. Ma, come nelle trasformazioni precedenti, la complessità è dovuta al fatto che, ai lati nefasti e negativi, se ne affiancano altri positivi.
Per tornare a Adorno e Horkheimer, dialettica dell’illuminismo significa appunto questo: che l’essenza del progresso è, come il dio Giano dei romani, di natura bifronte. Ad aspetti positivi e progressivi (l’incredibile sviluppo della medicina, per citare il caso più significativo), se ne sommano altri negativi e regressivi (l’energia nucleare, per fare un altro esempio).
Il sentiero dei maestri
I testi che ci avvicinano a questo tipo di lettura filosofica sono molti. Per quanto riguarda l’Ottocento, devono essere ricordati pensatori come Marx e Nietzsche. Poeti come Goethe e Baudelaire.
Per quanto concerne il Novecento, bisogna rammentare alcuni testi decisivi. “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Karl Kraus. “La mobilitazione totale” e il “Trattato del Ribelle” di Jünger. “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di W. Benjamin. “L’epoca dell’immagine del mondo” (secondo saggio di “Sentieri interrotti”), “La questione della tecnica” (primo scritto di “Saggi e discorsi”), “Conferenze di Brema e Friburgo” e “Seminari” di Heidegger.
“Eclisse della ragione” di Horkheimer. “Minima Moralia” di Adorno. “Dialetttica dell’illuminismo” di Horkheimer e Adorno. “L’uomo a una dimensione” di Marcuse. “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” di H. Arendt. Alcuni scritti di Emanuele Severino.
Qual è, dunque, la morale della favola? La conclusione che è possibile trarre da questa riflessione è del seguente tenore: gli uomini dovrebbero essere capaci di conservare ciò che gli antichi chiamavano humanitas, il potenziale umano nell’uomo. Senza lasciarsi schiacciare dalle pesanti sollecitazioni del presente o del futuro. Si tratta della sfida che la Storia lancia agli uomini da sempre e ci sarà vita, sulla terra, finché conserveremo questa possibilità…