La società dello spettacolo, Guy Debord
Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi
Guy Debord (1931-1994) è uno scrittore, cineasta e filosofo francese. Ma soprattutto è un rivoluzionario che ha cercato con la propria vita e con le sue opere di mettere radicalmente in discussione se stesso e la società in cui viviamo.
Di formazione anarchico-marxista, fonda nel 1957 l’Internazionale situazionista, movimento culturale che contesta la società consumistica.
In un periodo pieno di fermenti critici, esattamente nel 1967, Debord scrive La società dello spettacolo, un saggio di critica sociale in cui intuisce il fascino perverso della rappresentazione e analizza il moderno costume individuale e collettivo.
Nonostante le reticenze dell’autore a divulgare i propri lavori, questo libro rappresenta un fenomeno importante divenuto presto un classico della contestazione, che ha lasciato il segno nei cuori ribelli delle giovani generazioni.
Ci sono persone capaci di vedere la filigrana nelle cose, una realtà che non c’è o non c’è ancora. Debord attraverso delle tesi prevede quello che sarebbe accaduto alla società immateriale di oggi, intravede il futuro ambiente umano e sociale e lo identifica con quello dello "spettacolo".
Debord parte dall’analisi che Marx fa nel Capitale sul lavoro come fonte di valore.
La questione nasce tra fine ‘800 e primo ‘900 quando il rapporto tra lavoratore e prodotto comincia ad alterarsi ed il primo non si riconosce più nel secondo. Non è più importante che il prodotto sia autentico e che rifletta il lavoro richiesto per realizzarlo, ma soltanto che appaia come lo si attende e vuole, che faccia spettacolo perché questo richiede il nuovo mondo economico.
Nell’uomo dell’epoca moderna era avvenuto il passaggio determinante dall’essere all’avere, ora si è giunti all’apparire, cioè al non essere. A questo proposito Debord scrive le analisi più vicine ai nostri tempi, arrivando ad allarmanti constatazioni: la vittoria della finzione sulla realtà, della copia sull’originale, della forma sul contenuto è ormai totale.
Qui si inserisce il discorso sullo spettacolo, l’autore svela che la vera essenza della merce è la spettacolarizzazione. Tutto è concepito, si muove ed esiste in funzione dell’immagine che deve suscitare. “La merce non viene acquistata per essere consumata, ma per la sua carica simbolica”.
Lo spettacolo crea un rapporto tra individui mediato da immagini vuote e figlie del consumismo di massa, una sorta di assoggettamento psicologico in cui ogni individuo è isolato dagli altri ed assiste passivamente ad un monologo elogiativo dello spettacolo stesso.
Debord esamina le conseguenze prodotte dall’uso delle nuove tecnologie sul nostro modo di vivere. Da un lato della medaglia la realtà virtuale consente esperienze analoghe a quelle reali, dall’altro lato è la completa conversione del vero nel falso poiché tutto è filtrato.
Dietro a queste agghiaccianti considerazioni si cela non l’arido osservatore bensì un uomo disincantato e al tempo stesso sconvolto da questa dilagante crisi d’identità, dalla constatazione dell’impossibilità di vivere e di essere, per chi come lui, vuole vivere ed essere.
Nel momento in cui lo spettacolo non occupa più solo le nostre vite, ma anche i nostri sogni, le nostre aspirazioni, il ruolo simbolico che un tempo è stato della rivoluzione, Debord come Marx si propone di denunciare il “crimine perfetto che ha soppresso la realtà” e salvare il “vero” dal controllo, restituendogli la centralità.