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La sorte dei grandi predatori sotto la lente dell’ecologia

Gli antichi ci hanno preceduti in tutto, anche nel vegetarianismo. Erano soltanto uomini migliori, rispetto alla media odierna

Orso, primo piano del muso

All’inizio del cruciale aforisma 19 di “Minima Moralia”, intitolato “Non bussare” (Nicht anklopfen), Adorno scrive: “La tecnicizzazione – almeno per ora – rende le mosse brutali e precise, e così anche gli uomini” (ed. it. Einaudi, p. 35). Contemporaneamente ad Heidegger, Adorno dispiegò molta parte della sua sensibilità e del suo genio filosofico all’interpretazione delle tare del mondo contemporaneo, particolarmente – in un grande autore di ispirazione marxista, quale egli era – quelle legate alle società del capitalismo occidentale avanzato, ossia di quel mondo che la filosofia e la sociologia odierne definiscono come globalizzazione neo-liberista.

Poiché dal 1944, quando Adorno scrisse questa pagina (o dal 1951, quando “Minima Moralia” uscì in Germania), molte cose sono cambiate, ma niente che riguardi l’essenziale. Indicherei, in ordine sparso, la fine della Seconda guerra mondiale, con la sua triste e terribile eredità – la Shoah e le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki –, la guerra fredda, la caduta dell’Urss, la televisione a colori, internet, la finanziarizzazione del capitalismo, per ciò che riguarda il cambiamento.

Viceversa, la struttura di fondo della società capitalistica, la pesante industrializzazione, l’imperialismo europeo e americano e ciò che Karl Kraus chiamava gli ultimi giorni dell’umanità, per quanto concerne l’essenziale che non muta.

La questione

Non sarà illegittimo, allora, considerare la sorte degli animali selvatici – e dei grandi predatori in modo particolare – tra le conseguenze di quella che Adorno e Horkheimer chiamavano la dialettica dell’illuminismo. Più in generale, è possibile dire che la pesante industrializzazione degli ultimi due secoli, che sta gravemente mettendo in crisi la nostra sopravvivenza sul pianeta Terra, appartenga alle dinamiche del progresso e, dunque, all’illuminismo.

Il libro di David Quammen, “Alla ricerca del predatore alfa. Il mangiatore di uomini nelle giungle della storia e della mente” (2003, ed. it. Adelphi), ha il pregio di introdurre il non-specialista, tra cui l’autore di questa nota, in una materia affascinante e, a suo modo, complessa. Complessa come può essere quella dell’ecologia applicata al destino futuro dei grandi predatori, in un mondo come il nostro.

Ossia un mondo che vede l’uomo come unico referente della realtà naturale. Un mondo in cui, come disse Heidegger, la tecnica ha instaurato con la natura un rapporto di imposizione e sfruttamento.

Saggista brillante e appassionato, autore di notevoli reportage per il “National Geographic”, Quammen ci riporta alla mente il brivido di quando eravamo bambini. Quando leoni e tigri, leopardi e pantere, lo scatto bruciante del ghepardo, il morso dello squalo, la zampata del grizzly, il fascino del lupo, fino alle vertiginose discese aeree del falco pellegrino, popolavano la nostra immaginazione a volte per mesi, se non per anni. Ed era un mondo di incanto.

Spigolature nostrane

Bisogna dire che il vizio cronico di parlare male dell’Italia ad ogni piè sospinto, ormai una parte del problema più che la soluzione, nel caso delle politiche ambientali ed ecologiche non funziona o, almeno, non è sempre valido. Il Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise è un fiore all’occhiello dell’Italia centrale, una vera scuola di vita ed esperienza per adulti e bambini.

Il lupo appenninico, l’orso marsicano, una sottospecie unica di camoscio, presente solo qui, colorano le giornate passate nel Parco di meravigliose atmosfere. A Pescasseroli, città natale di Benedetto Croce, ha trascorso una buona parte della sua vita l’orso Sandrino, che deve il suo nome all’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Analogamente il Parco Nazionale dello Stelvio può regalare l’incontro con lo stambecco o, per chi è molto fortunato, con l’aquila reale. Nonché con guide naturalistiche e alpine, che hanno una bella esperienza di vita.

Poiché niente ci istruisce di più sulla natura di questa vita, sulla sua enigmaticità, sul pericolo che è pronto ad attenderci ad ogni passo – “vivere, in generale, vuol dire essere in pericolo”, disse il giovane Nietzsche della terza Considerazione inattuale, quella di “Schopenhauer come educatore” (1874, ed. it. Adelphi) – che l’esperienza del mare o della montagna. Analogo discorso vale, dunque, per i marinai e i pescatori.

Un’altra cosa ci insegna l’esperienza dei parchi nazionali. Ossia che l’emozione più grande, quella con la maiuscola, non consiste nell’uccidere, ma nel rispettare i viventi e gli animali e lasciar vivere. Così, se contro la caccia siamo stati sempre, un giorno che vedemmo morire una murena in una lunga agonia, smettemmo anche di pescare.

Il problema

Quando la sera, stanchi e affamati, ci sediamo di fronte alla nostra bistecca, ai nostri hamburgers, al nostro filetto di orata o di pesce azzurro, raramente ci poniamo domande. Soprattutto domande essenziali.

La domanda sarebbe questa: al netto delle bestie di allevamento, quanti animali sono necessari, ogni giorno, per rifornire quella buona fetta della popolazione mondiale, che può permettersi un’alimentazione a base di proteine? Il numero di animali sacrificati è incomparabile.

Ma non sono, sempre, animali e viventi che soffrono? È possibile parlare di un olocausto degli animali? A nostro avviso sì, pure se siamo innamorati del sapore della carne e del pesce.

Gli antichi ci hanno preceduti in tutto, anche nel vegetarianismo. Erano soltanto uomini migliori, rispetto alla media odierna. Ossia, ciò vuol dire che Pitagora e Plutarco si erano posti il problema e ne erano consapevoli, a differenza di altri, Platone e Aristotele ad esempio, che hanno influito assai di più sulle generazioni successive.

Non solo, ma Quammen fa un passo più in là. Non parliamo più, genericamente, di animali, ma di grandi predatori in libertà. Per il nostro autore, nel 2150, quando ci saranno undici miliardi di esseri umani ad abitare il pianeta, non ci sarà più spazio per i grandi predatori per come li abbiamo conosciuti finora. Ossia liberi e compresi della loro enigmatica, energetica e vigorosa natura.

Non sarebbe un passaggio irrilevante e insignificante: quello che, nel bene e nel male, l’uomo è stato fino ad oggi, lo deve anche alla presenza dei predatori alfa, che accompagna la vita degli esseri umani fin dalla notte dei tempi.

In conclusione

Che ne sarà, si chiede allora Quammen, dei bambini di domani, che non sapranno più dello scatto bruciante della tigre, quando attacca un indiano in sella a un elefante? Che ne sarà dell’immaginazione dei bambini, così drammaticamente impoverita? Neanche questo è un problema da poco…

Progresso e industrializzazione, che avrebbero dovuto rendere la vita più leggera, comoda, facile, stanno di fatto creando condizioni sempre più impossibili per la sussistenza degli abitanti di questo pianeta, esseri umani compresi. Ecco perché la sorte futura dei grandi predatori, può essere fatta rientrare tra le conseguenze della dialettica dell’illuminismo.