La sorte di Assange, chi processerebbe un uomo per aver svelato corruzione e soprusi?
Come ci poniamo di fronte alla verità? Fino a dove la libertà di stampa può accettare la fuga di notizie riservate come nel caso di Assange?
Martedì scorso, Vanessa Baraitser, giudice della Central Criminal Court di Londra ha negato l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti dove, se processato, rischierebbe una condanna di 175 anni. La sentenza si basa sul riconoscimento di un punto fondamentale della difesa: Assange soffre di disturbi mentali a causa della sua lunga reclusione dal 2012. E dunque “il suo trasferimento in un carcere americano potrebbe essergli fatale in quanto Assange è a rischio suicidio“. Come si apprende dal capo dell’associazione Dea (Don’t Extradite Assange), “la giudice ha accettato al 95% le ragioni di processare Assange in America, ma ha poi deciso di opporsi all’estradizione a causa del brutale sistema carcerario degli Stati Uniti”.
Cosa succederà adesso a Julian Assange?
A questo punto tutto è di nuovo possibile: Assange ora potrebbe essere liberato su cauzione. Oppure potrebbe rimanere nel carcere di Belmarsh in attesa dell’esito del ricorso degli Stati Uniti. I legali del giornalista progettano di ricorrere alla Corte Europea dei diritti dell’uomo se necessario, mentre il Messico gli ha già offerto asilo politico. Il verdetto finale dovrebbe quindi arrivare l’anno prossimo. Nel frattempo Assange rimarrà nel carcere di Belmarsh, consapevole però di aver conquistato oggi una vittoria per la sua battaglia in favore della verità.
Il processo durato settimane non è stato raccontato con il clamore che ci si sarebbe aspettato dai media e dai giornali che in virtù della loro stesso interesse verso la causa avrebbero dovuto informare e prendere posizione. Ad esempio nessuna testata ha dato un grande rilievo a quanto emerso riguardo all’assoluzione di Assange dall’accusa di furto di password ad enti governativi. E’ stato dimostrato che il soldato Chelsea Manning, graziata da Obama, aveva accesso a quei documenti. E dunque aveva già potuto scaricare tutto il materiale per farlo divulgare.
Assange da portatore di luce è finito nell’ombra
Sono passati 10 anni da quando Assange veniva considerato Prometeo che dona il fuoco ai mortali. Ma ora, proprio come Prometeo, Assange è imprigionato e in parte dimenticato. Il suo volto era un’icona da stampare sulle magliette, il simbolo di una lotta contro i governi che non potevano più agire nell’ombra. Il simbolo della libertà di stampa e di opinione. C’era l’illusione di poter affermare che qualsiasi azione poco trasparente sarebbe potuta diventare pubblica e che tutti avevano il diritto di sapere e di parlare.
Il Guardian ancora lo sostiene e in un editoriale pubblicato recentemente ha definito il processo nei suoi confronti un assalto alla libertà di stampa, un pericolo per tutti gli editori.
Il New York Times ha pubblicato nella sezione degli editoriali la testimonianza di una giornalista, Laura Poitras. La Poitras critica l’obsolescenza dell’Espionage Act, che il fondatore di WikiLeaks è accusato di aver violato. Parliamo di una norma introdotta durante la Prima Guerra Mondiale che non fa distinzioni tra chi è accusato di aver venduto segreti di Stato a potenze straniere e chi invece informa il pubblico sui crimini commessi da uno Stato. Proprio questa norma porterebbe Assange a scontare fino a 175 anni di carcere andando a stabilire un precedente pericoloso anche molti giornalisti.
Oggi la questione sembra sbiadita. Il mondo è tornato nel solito torpore dispensato da oscuri meccanismi e il sostegno ad Assange sembra più tiepido. Così per stare tranquilli basta sapere che in qualche modo la giustizia britannica ha salvato Assange dal suo terribile destino anche se la motivazione principale non ha nulla a che fare con una qualche forma di riconoscimento della sua battaglia ma va attribuita alla pietà di un giudice che vede in lui un possibile suicida.
Le nostre coscienze vengono anestetizzate
Una vittoria quella di martedì, sicuramente importante per il giornalista e per la sua famiglia. Ma può essere considerata anche una vittoria per la sua causa? Possibile che anche i diritti umani possano diventare una moda al pari di tante altre vicende e dunque anche non esserlo più? Senza il supporto dei media nessuna grande battaglia potrà sopportare l’oblio del tempo. Senza un fuoco che alimenta l’interesse delle nostre coscienze l’indignazione decade velocemente. Restano in trincea i soliti combattenti armati di strumenti obsoleti che rivelano le loro profezie al mondo senza essere ascoltati. Le nostre coscienze vengono anestetizzate con notizie più salienti così quello che ieri sembrava importante oggi decade in favore di un bisogno più impellente.
Dieci anni fa i più autorevoli giornali del mondo decidevano di pubblicare contemporaneamente migliaia di documenti segreti. Documenti relativi alle guerre americane in Iraq e Afghanistan. In quei file erano documentati atti orribili, che avevano suscitato non poco imbarazzo al governo americano.
Il ruolo e gli obiettivi di Wikileaks
I documenti avevano una fonte Wikileaks, un’organizzazione allora sconosciuta che nasceva con l’obiettivo di pubblicare documenti segreti per smascherare corruzione e soprusi. Dal 2006 ad oggi Wikileaks, non ha mai smesso di farlo. Ma quello che nel 2010 sembrava essere la nuova frontiera del giornalismo e della vera democrazia ora è considerato come un demone da cui difendersi.
Quando le sconvolgenti rivelazioni erano uscite all’unisono destando sgomento nel mondo, nessuna istituzione democratica poteva apertamente dichiarasi contraria.
Chi mai avrebbe potuto processare un uomo per aver svelato corruzione e soprusi? Il giornalista australiano Julian Assange, ricevette diversi premi e onorificenze tra cui il Premio Sam Adams, la “Gold medal for Peace with Justice” da Sydney Peace Foundation e il “Martha Gellhorn Prize for Journalism”, ed è stato ripetutamente proposto per il Premio Nobel per la pace, per la sua attività di informazione e trasparenza. L’endorcement proveniva da testate prestigiose come l’Economist, Le Monde e da personaggi influenti come Yoko Ono.
Cosa è cambiato nel frattempo?
Quello che spesso accade con la verità. Non sempre la si vuole mostrare, non sempre si è pronti a subirne le conseguenze. Così inizia il declino di Wikileaks.
Nel 2016, durante le Primarie presidenziali del Partito Democratico statunitense, WikiLeaks pubblica delle e-mail inviate e ricevute da Hillary Clinton dal suo server di e-mail privato quando era Segretario di Stato. Le rivelazioni vennero ritenute determinanti nella sconfitta del Partito Democratico contribuendo indirettamente al trionfo di Donald Trump. Per questo WikiLeaks e di riflesso Assange agli occhi della stampa progressista passarono dall’essere celebrati all’essere ignorati.
Nel frattempo Assange ha compiuto 49 anni, ha avuto due figli e tutto ciò durante la sua reclusione, prima volontaria e poi imposta. Martedì è stato deciso che non subirà il processo negli Stati Uniti e che non rischierà quei 175 anni di reclusione che sembravano essere scritti nel suo destino. Questa decisione rappresenta un segno di ravvedimento e dimostra che qualcosa di buono nelle democrazie ancora esiste.
Un processo con due visioni opposte
In questo processo che non è stato raccontato era in gioco molto più che una sentenza di assoluzione o colpevolezza. Si sono fronteggiate due opposte visioni. Quella del 2013, quando Obama aveva capito che criminalizzare Assange significava in fondo mettere sotto accusa il giornalismo investigativo e la visione di Trump, che lo considera un pirata informatico, imputandogli 18 capi d’accusa.
Così martedì alle 11.00, orario inglese, tutti tornano a parlare di Assange con la decisione di non estradizione che fa esplodere di gioia le decine di attivisti e fedelissimi fuori dal tribunale, di fianco alla Cattedrale di St Paul.
Per i suoi detrattori, Assange è un hacker invischiato in torbidi rapporti con la Russia dopo lo strano caso delle email del Partito Democratico americano pubblicate da WikiLeaks. Per i suoi sostenitori, invece, è un martire della libertà di espressione e di stampa, che sta pagando a carissimo prezzo la pubblicazione di file importantissimi: “affinché il mondo possa vedere”. Ma comunque la si pensi tutta questa vicenda porta a chiederci: come ci poniamo di fronte alla verità? Fino a dove la libertà di stampa può accettare la fuga di notizie riservate che forse lo sono anche per questioni di sicurezza? Vogliamo davvero sapere cosa si nasconde dietro le nostre comode vite? Siamo pronti a smantellare il sistema creando il caos?
Notizie veloci, ma lecite o no?
Non si tratta solo di una veloce (wiki) fuga di notizie (leaks) ma si tratta di stabilire se sia lecito rivelare una notizia nuda senza censure oppure sia giusto voltarci dall’altra parte sperando di non dover mai fare i conti con essa. Se la verità genera il caos dobbiamo aver paura oppure credere a Nietzsche quando fa dire a Zarathustra che “bisogna aver ancora un caos in sé per poter generare una stella danzante”.
Un’opera d’arte per il coraggio di rivelare la verità
Proprio a questa domanda ci esortano a rispondere il giornalista Charles Glass e l’artista Davide Dormino con la loro composizione che intende sostenere dal 2015 la battaglia del giornalista australiano.
“A monument to courage è una scultura inaugurata il 1 maggio del 2015 nella Alexander Platz di Berlino ed ha continuato ad apparire in diverse piazze e strade del mondo, accompagnata da dibattiti e performance sulla libertà di stampa e la necessità di tutelare chi denuncia, rendendo visibili le distorsioni del potere.
Ideata dal giornalista Charles Glass e realizzata da Davide Dormino la composizione ha la prerogativa di essere itinerante, sulle sedie dell’opera “Anything to say?” compaiono Edward Snowden, Julian Assange e Chelsea Manning, “i whistleblower” (segnalatori di illeciti) più importanti del nostro tempo. Ma la scultura è composta di quattro sedie e la quarta è lasciata volontariamente vuota. Uno spazio per chi in futuro avrà il coraggio di salirci e rivelare verità scomode.
Articolo di Maria Luisa Felici
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