La triste movida romana. Lo spaccio di facili anestetici
Dove c’è offerta c’è una domanda. Dove c’è una domanda c’è chi la crea. Le colpe dei grigi burocrati romani
L’ennesima operazione antidroga dei Carabinieri romani ha portato all’arresto di decine di persone dedite allo spaccio di stupefacenti, nelle zone della cosiddetta movida romana. Non è e non sarà l’ultimo tentativo di debellare un fenomeno che ormai caratterizza tristemente le serate dei giovani romani. Dalla notte dei tempi, le fasi di sviluppo verso l’età adulta sono scandite da riti di passaggio che includono anche fenomeni di devianza e ribellione all’ordine sociale costituito, al fine di una sua introiezione e dell’adattabilità dell’individuale alle regole della convivenza civile. Tuttavia, l’uso e l’abuso di sostanze alienanti sono sintomi moderni, indizi di un malessere sociale che ha poco a che vedere con i conflitti intergenerazionali o con la naturale insubordinazione da parte di personalità in fiore, per le quali, peraltro, si auspica possano preservare un certo grado di autonomia intellettuale da qualsivoglia ordinamento valoriale e legale istituzionalizzato.
Il fine ultimo di una società dovrebbe essere il benessere delle sue parti, l’aspirazione alla crescita degli individui che la compongono, i quali, riflessivamente, ne determinano il suo progresso. Nonostante le vulgate libertarie, giuste in termini ideali, l’uso di sostanze che alterano e danneggiano le normali funzioni biologiche della persona, è un fenomeno che anche una società emancipata da un ruolo paternalistico, dovrebbe combattere alacremente. Proprio quello che le amministrazioni romane non hanno fatto fino a oggi.
Se da una parte il carattere ormai globalizzato e digitalizzato dell’offerta culturale, assolve questi piccoli burocrati costantemente impegnati a perpetuare se stessi e le loro macerie, dall’altra non li esime dalla critica di chi, al contrario, non ha scelto di prendersi tale gravosa responsabilità, fatta di onori, ma soprattutto oneri nei confronti della collettività. Una quasi megalopoli come Roma, culla della civiltà occidentale, depositaria della sua memoria storica, sta perdendo ogni sua caratterizzazione identitaria per lasciare campo aperto a un vuoto emotivo che solo l’alienazione, sotto varie forme, è capace di colmare. Nel silenzio generale, stanno scomparendo i cinema di quartiere, le piccole librerie storiche, i teatri, i locali di musica dal vivo, i centri d’incontro tradizionali, sportivi, politici o religiosi; sostituiti dai grandi magazzini dell’intrattenimento a buon mercato dove vige la legge dell’usa e getta, dove non c’è più spazio per l’individualità soggettiva, che si forma attraverso la lenta sedimentazione personale di esperienze significative, acquisite anche in modo condiviso: l’aggregazione fine a se stessa crea solo mostri di solitudine schizofrenica.
L’offerta commerciale romana è diventata la metafora della regressione sociale ad uno stadio primitivo in cui sono soddisfatti solo gli istinti primari. Nei quartieri storici della Capitale si assiste a un susseguirsi ininterrotto di bar, pizzerie, enoteche, ristoranti; lo stesso scenario offerto dalle periferie, reso ancor più desolante dalle mostruosità dell’edilizia moderna, da un tessuto di relazioni umane completamente sfibrato.
Gli spacciatori di San Lorenzo, Trastevere o Pigneto, spesso nordafricani, oggi più che mai facilmente etichettabili come musulmani, erano ieri albanesi, sudamericani, e prima ancora italiani. Domani saranno sostituiti da qualcun altro: ebreo, cristiano, bianco, nero o giallo. Ma quell’orda di giovani e meno giovani bulimici di facili anestetici, che non trovano offerte alternative per sublimare i loro impulsi – vitali e distruttivi – su cui costruire la loro identità di uomini e cittadini maturi, continuerà a rimanere in attesa su quelle piazze; disorientata; facile preda della demagogia sempre in agguato, dei piccoli burocrati romani.