Libertà vs. politically correct, è questa la vera battaglia del nostro tempo
Nuovi casi dall’America riaccendono i riflettori sul potere censorio del pensiero unico. Che non risparmia nemmeno l’Italia, come dimostra l’espulsione di Fausto Leali dal GF VIP
Libertà vs. politically correct, sembra essere questa la vera, grande battaglia del nostro tempo. Ci sono infatti tanti, troppi indizi che concorrono a delineare questo scenario. Gli ultimi arrivano dagli Stati Uniti, ma suonano come un campanello d’allarme anche per il Vecchio Continente, fin troppo assuefatto e intimidito dal politicamente corretto. Tanto da voltare spesso le spalle alla realtà in nome del quieto vivere – seppur inquinato dall’ideologia.
Libertà vs. politically correct
Lo scorso 29 settembre, data che richiama subito una splendida canzone del duo Battisti-Mogol, a Cleveland è andato in scena il primo dibattito relativo alle Presidenziali Usa. Che rischia di restare anche l’unico, considerato che il Presidente Donald Trump è stato appena trovato positivo al coronavirus al pari della First Lady Melania.
Un confronto considerato da molti deludente, e tuttavia ravvivato dalla polemica sul presunto auricolare che lo sfidante Joe Biden avrebbe indossato durante il face to face. Ipotesi smentita dai cosiddetti fact-checkers, i “verificatori” che hanno appurato come in effetti si trattasse di una semplice piega della camicia.
Fin qui tutto bene, così come è positivo che, googlando “Joe Biden wire”, all’inizio appaiano solo risultati che mettono in guardia contro la fake news. Eppure, allargando l’orizzonte si intravede l’enorme potere di un’azienda – Google, appunto – in grado di dare rilievo ad alcune istanze tacitandone invece altre.
È il meccanismo che la sociologa Elisabeth Noelle-Neumann definì “spirale del silenzio”, e che si manifesta nella capacità dei media di orientare i sentimenti dell’opinione pubblica. Che può non creare problemi in caso di bufale conclamate, ma ne suscita di enormi quando cala la scure su delle opinioni, per quanto controverse. Con una facoltà censoria autoattribuita che va a colpire, immancabilmente, coloro che si discostano dalla vulgata del pensiero unico.
Chi controlla i controllori?
Era lo scorso maggio quando The Donald si vide bollare da Twitter come “potenzialmente fuorvianti” due cinguettii sui rischi di frode legati al voto postale. L’inquilino della Casa Bianca aveva espresso un parere, anche se magari era discutibile, e la “correzione” lo aveva mandato su tutte le furie. «I Social Media silenziano totalmente le voci dei conservatori» aveva tuonato, aggiungendo che la società di San Francisco «sta completamente sopprimendo la libertà di parola».
Al di là di toni e prospettive, Mr. President sollevava la questione riassumibile nel motto di Giovenale Quis custodiet ipsos custodes? Ovvero, chi controlla i controllori, che non possono essere arbitri della verità, come ha ammesso anche Jack Dorsey, Ceo della piattaforma dei 280 caratteri?
È un aspetto dirimente, e lo è ancor di più nel momento in cui esce dal mondo fatato dei social per farsi Weltanschauung. Come nel caso del succitato dibattito presidenziale, in cui il conduttore Chris Wallace è stato particolarmente attento al doppiopesismo. Sollecitando il tycoon sui suprematisti bianchi – mai appoggiati dal Potus -, ma guardandosi bene dal chiedere al candidato democratico un’analoga condanna dei teppisti del Blm.
Per non parlare del caso del ciclista yankee Quinn Simmons, diciannovenne iridato juniores. Il quale è stato sospeso dalla sua squadra, la Trek-Segafredo (la stessa di Vincenzo Nibali) per un tweet che qualche anima bella ha ritenuto razzista.
Il corridore aveva risposto alla giornalista olandese José Been, che aveva invitato i suoi followers trumpiani a smettere di seguirla. E Simmons, fan dell’inquilino della Casa Bianca, aveva ironicamente commentato con un “Bye” seguito dall’emoji di una mano che saluta. Una mano dalla tonalità scura.
Tanto è bastato a far scattare la tagliola del team, malgrado l’atleta abbia precisato che il colore dell’emoji non c’entrasse nulla col razzismo.
Libertà vs. politically correct, i casi italiani
D’altronde, anche noi ne sappiamo qualcosa. È ancora fresca, per dire, l’espulsione dal GF VIP del cantante Fausto Leali, reo di aver pronunciato la parola “negro” – senza alcuna connotazione negativa. Che sarebbe stupida e ridicola, per inciso, e a maggior ragione in bocca a un artista da sempre soprannominato “Il negro bianco”.
Ma lo scontro libertà vs. politically correct è più antico. Recentemente, se ne è avuto un assaggio prima con la Commissione Segre e ora con la pdl Zan. Due strumenti in mano ai manutengoli del sistema che non servono affatto ad aggiungere tutele a categorie discriminate, bensì a censurare le opinioni discordanti. E probabilmente non è un caso che gli intelliggenti con-due-gi abbiano preso a citare il “paradosso della tolleranza” di Karl Popper. Secondo cui, in buona sostanza, i tolleranti avrebbero il diritto di non tollerare gli intolleranti.
È con la stessa overdose di ipocrisia che, più di recente, i corifei del politicamente corretto dispensano – a sproposito – l’infamante marchio di negazionista. Perché c’è differenza tra negare l’esistenza del Covid-19 (che è una solenne idiozia) e criticare le misure adottate per contrastare il virus. Cosa che, in una democrazia, dovrebbe ancora essere lecita.
Si può, per esempio, manifestare perplessità sulla bontà dell’ordinanza con cui il Governatore del Lazio Nicola Zingaretti ha imposto nella Regione l’obbligo di mascherine all’aperto? Visto che non c’è alcuna evidenza scientifica che la giustifichi, a partire dall’attuale curva dei contagi che non riflette alcuna emergenza?
Perché è su questo terreno che si gioca – lato sensu – la partita sull’indipendenza di pensiero, parola ed espressione. Partita che, inevitabilmente, riguarda tutti noi. Libertà vs. politically correct. Tertium non datur.