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Libri: “L’architettura parlata”, contro la dittatura della spettacolarizzazione

“Non c’è a Roma una committenza pubblica degna di questo nome e senza la committenza, ammonisce Passeri, l’architettura non esiste”

Roma_Colosseo_pexels-pixabay

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Venerdì scorso, nella sala Quaroni di EUR S.p.A., è stato presentato l’ultimo libro di Alfredo Passeri “L’architettura parlata”, sottotitolo “contro la dittatura della spettacolarizzazione”.

Un libro d’amore per l’Architettura

Titolo e sottotitolo, annunciano l’intento polemico del libro, ma in realtà si tratta di un libro d’amore: per l’Architettura, quella con la A maiuscola, sempre più rara e per la professione di architetto. Ma anche, se non soprattutto, d’amore per Roma. Alfredo Passeri, una vita dedicata all’insegnamento nell’Università di Roma tre, ha formato centinaia di studenti che, per il rapporto instaurato, sarebbe giusto definire discepoli. Tra le sue realizzazioni più importanti spicca la ex sede del Rettorato di Roma Tre a via Ostiense, ora sede della Facoltà di Giurisprudenza.

Passeri ha scritto molti saggi ed è uomo di cultura e di professione più che di polemiche, ma stavolta, come mi ha confidato, non ha potuto “trattenersi” e vincendo la sua naturale riservatezza ha detto ciò che pensa: “vogliono farci credere che tutto vada (o andrà) bene, ma non è così, soprattutto per chi, come noi, ha avuto l’idea della città (pubblica) costruita, di qualità e non consegnata ai privati più famelici e incolti”. Il libro va decisamente letto.

L’immagine senza lo sostanza

L’Architettura oggi è più parlata ed annunciata che praticata e spesso lo è in malo modo, con prodotti scadenti o inutilmente costosi, al punto da non poter essere realizzati come erano stati pensati o mai terminati. Ma questo è il frutto dell’autocelebrazione dell’immagine di questi anni (e di un certo modo di concepire l’architettura e la città) che è la negazione della sostanza e della qualità. Colpa di amministratori pubblici incapaci, desiderosi solo di conquistare i notiziari? Degli “archistar” – parola che andrebbe bandita – e dei “manieristi” che li seguono? E’ colpa del disegno computerizzato, che ha soppiantato la matita a favore del mouse, con il quale molti “creativi” generano oggetti senza alcun rapporto con la funzione alla quale sono destinati o con i luoghi che andranno ad occupare?

Le responsabilità della committenza

La ragioni sono molte, ma la colpa principale, come ha limpidamente sostenuto Paolo Berdini, urbanista di chiara fama ed appassionato polemista, che ha scritto la presentazione del libro, è di una committenza pubblica e privata, priva di cultura. Cultura è quella parola che spinge quelli come Goebbels – non a caso ministro della propaganda nazista – a “mettere mano alla pistola” ma è l’unico strumento che permette di concepire e produrre la bellezza. Nel passato, sottolinea Berdini, la committenza era ricca, colta ed elitaria e la bellezza delle città che ci hanno lasciato, Roma su tutte, è l’inevitabile conseguenza della loro cultura.

Oggi la grande committenza privata, costituita in prevalenza da fondi di investimento, guarda esclusivamente al profitto garantito dalla quantità più che dalla qualità, mentre la committenza pubblica ha perso la sua capacità di indirizzare le scelte, delegandole a “disegnatori”– categoria diversa dagli architetti, compositori di spazi e luoghi – che hanno l’obiettivo di stupire anziché produrre bellezza fruibile e realizzabile.

Vele, Boschi Verticali e Nuvole: sotto il vestito niente

Cosicché l’immagine soppianta la fattibilità, l’effetto scenico soppianta la valutazione dei costi, lasciando scenografie incompiute, edifici estranei al contesto e “vele, boschi verticali e nuvole”, magistralmente disegnati dal computer, ma dai costi di realizzazione e gestione insostenibili, insomma, per dirla con il titolo di un film degli anni ’80: “sotto il vestito niente”. Il ruolo degli architetti oscilla paurosamente tra l’elite degli “archistar”, venerati persino come tuttologhi e una professione povera e umiliata nell’inseguire committenti insolventi o ridicolizzata dai luoghi comuni.

Questa debolezza si riverbera tristemente nelle nostre periferie, disordinate e costellate di edifici orribili e “monocordi” in gran parte in attesa di completamento o nei progetti annunciati per anni, come lo Stadio della Roma (già al secondo decennio di iter amministrativo, mentre lo Stadio Flaminio va in malora per anni) il progetto dei Fori Imperiali (impossibile da attuare in mancanza di un profondo intervento sulla struttura della mobilità cittadina e del sistema dei parcheggi) e l’immaginifico e faraonico progetto del “ponte sullo stretto” che dovrebbe unire Regioni che necessiterebbero di opere essenziali, meno costose e più urgenti e decisive.

Archistar, parola da bandire?

Gli architetti italiani della prima metà del ‘900 erano maestri – l’elenco sarebbe lunghissimo: da Libera a Rossi, da Tafuri a Portoghesi, passando per Moretti e Nervi, che non avrebbero accettato di essere definiti archistar, perché il loro obiettivo era la produzione di opere belle, utili, ben fatte e durature ed erano al servizio di una committenza, soprattutto pubblica, colta e illuminata. Ma i tempi sono cambiati e, come dice Passeri: “l’homo sapiens, capace di decodificare segni e di elaborare concetti astratti, quando si trasforma in homo videns non è più portatore di pensiero, ma fruitore di immagini, con il conseguente impoverimento della capacità di comprensione, ragionamento e giudizio critico”. E su questa scena, già desolante, sta per irrompere l’intelligenza artificiale.

Roma: senza Programmi, Architettura e Bellezza

Ma i parolai si compiacciono di se stessi, lasciando che faccendieri e speculatori deturpino le nostre città. Roma è l’esempio più evidente di questa schizofrenia e i suoi cittadini sono sempre più sfiduciati da decenni di approssimazione, incapacità e corruzione. Dai tempi di Rutelli e Veltroni, ultimi sindaci capaci di programmare, concepire e indirizzare, non c’è a Roma una committenza pubblica degna di questo nome e senza la committenza, ammonisce Passeri, l’architettura non esiste. E senza le istituzioni – dove sono le istituzioni? – l’architettura è un “uroboro”, serpente che addenta la propria coda, mangiando se stesso.