L’igiene personale e la lotta ai virus ai tempi di mia nonna
L’alcool per esempio, era usato per qualsiasi cosa, dalla pulizia dei banchi scolastici ai vetri di casa come pure per la lotta ai virus
Mia nonna paterna era nata nel 1912 in Sud America da padre libanese e da madre italiana e cresciuta a Beirut in Libano dove aveva conosciuto mio nonno, figlio di emigranti siciliani e nato a Beirut. I miei nonni rientrarono in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale, prima sfollati a Moscufo in provincia di Pescara, per poi trasferirsi a Roma dove trascorsero tutta la loro vita.
La mia famiglia allargata
Quando nel 1975 i miei genitori si separarono, andai ad abitare con i miei nonni, poco lontano da casa, a Roma nord. Con loro vivevano già da alcuni anni anche tre miei cugini rimasti orfani del proprio papà, così che si era formato un nuovo nucleo familiare: quattro bambini/nipoti e due nonni/genitori.
Mia nonna, da brava libanese, era un’accanita fumatrice e una consumatrice compulsiva di olive.
Come ogni donna del suo tempo, nata in un’epoca in cui non vi era né la televisione né la radio, possedeva delle conoscenze igienico-sanitarie basate certamente sulla buona fede, ma di ben poca efficacia. In cui però credeva in maniera dogmatica, così come credeva ciecamente nelle Sacre Scritture.
Le armi di nonna nella lotta ai virus e la potenza dell’alcool
La nonna disponeva di numerose armi per contrastare virus, batteri e germi di natura biologica e morale. Quando rientravo da scuola o dopo aver giocato in cortile con i miei amichetti, mi attendeva dietro la porta di casa e una volta varcata la soglia, mi aggrediva a mo’ di agguato, armata di straccio e alcool. Già, proprio quell’ alcool rosa nelle bottiglie di plastica trasparente il cui solo odore pungente bruciava i recettori nasali facendoti perdere l’olfatto per almeno sei mesi.
Era l’alcool usato per qualsiasi cosa, dalla pulizia dei banchi scolastici ai vetri di casa, come smacchiante per indumenti e per la sterilizzazione degli aghi per siringhe.
Per prima cosa nonna ti ispezionava la nuca e anche se non era sporca la strofinava con uno straccio sporco più della nuca, imbevuto di alcool raschiandoti via la pelle fino al terzo strato. Poi si passava alle ginocchia e ai gomiti con la stessa tecnica. E se rientrando in casa accennavi disgraziatamente a un leggero dolore di natura articolare o organica, ecco che nonna ti guardava con gli occhi di Torquemada, capo della Santa inquisizione e ti poneva la fatidica domanda: “Ti sei fatto male, vero?“.
L’incubo della supposta e della peretta
Qualunque fosse la risposta ti invitava a seguirla in cucina e prendeva da un cassetto una delle più terribili armi di cura di quegli gli anni: la supposta.
Nonna estraeva la supposta dalla scatoletta e tenendola tra indice e pollice ne ungeva la punta con l’olio d’oliva per lubrificarla e facilitarne l’introduzione. Aveva lo stesso sguardo e la medesima cura e concentrazione di un cecchino che prepara il proiettile prima di inserirlo nella propria arma. Solo che nonna, la supposta, la inseriva altrove.
Perché se è vero che la supposta, secondo lei, curava quasi tutto, c’era in extrema ratio la panacea per curare tutti i mali del mondo: la peretta. Si chiamava così perché somigliava all’omonimo frutto solo che, un po’ la mia statura di bambino e complice il terrore che suscitava, ai miei occhi pareva più una enorme papaya. Come la supposta così anche questo enorme frutto avrebbe profanato il mio corpo.
Il liquido contenuto nella peretta era di natura sconosciuta. Un lontano parente religioso ipotizzò si potesse trattare di acqua benedetta ma nessuno lo seppe mai. Questi erano solo alcuni dei rimedi con i quali mia nonna pretendeva di curare i malanni fisici miei e dei miei cugini ma anche l’anima e i mali con cui essa poteva infettarsi erano oggetto delle sue attenzioni e cure.
Il bagno in casa
Il bagno in casa nostra era un luogo non facilmente frequentabile ma anche il solo in cui si potesse avere un minimo di privacy condividendo l’appartamento in sei persone. Il diritto di utilizzarlo per primo spettava a mio nonno, anche perché era il capofamiglia e ne disponeva per svolger tutta una serie di pratiche corporali quotidiane che andavano dal radersi la barba, al taglio delle unghie, alle abluzioni mattutine, all’evacuazione dei bronchi e dei visceri. Insomma, nonno entrava in bagno alle sette del mattino e ne usciva alle dieci. Per fare pipì o ci andavi prima oppure la facevi in un barattolo.
Io che ero il più piccolo potevo approfittare del bagno dopo che tutta la famiglia vi era transitata.
Il rischio degli atti impuri
Ma era vietato chiudere la porta a chiave e se la pipì durava più di un paio di minuti allora nonna considerava l’orrenda ipotesi dell’atto impuro. Così, come il secondino di un carcere, bussava alla porta con cadenza regolare di 120 secondi, al fine di scongiurare l’eventuale fornicazione. E quando uscivo mi ammoniva paventando tremende malattie qualora avessi fatto ciò che temeva. Diceva che avrei potuto sviluppare la poliomielite. Perché così aveva sentenziato anni prima in Libano un medico quando si scoprì che mio zio aveva capito che il proprio organo genitale serviva anche ad altro oltre che alla minzione.
Vi erano anche delle restrizioni alimentari, frutto di esperienze familiari, che col tempo avevano assurto a verità incontrovertibili. Come quella per cui mangiare contemporaneamente pesce e latte avrebbe potuto provocare la morte. Questo a seguito di una presunta intossicazione di cui era stata vittima mia zia. Più che il latte poté il pesce avariato, secondo molti, ma non secondo mia nonna.
L’aspirina americana curava tutto
Il mal di denti aveva due soluzioni: il dentista, il che equivaleva all’estrazione del dente, oppure la cura domiciliare con le famose “Gocce del Dott Knapp“. Non so se fosse peggio il trapano del dentista o il sapore orrendo di carburante per aeroplani delle gocce, ma di certo queste ultime avevano il potere di placare momentaneamente anche il più acuto dolore fisico. E poi il nome evocava qualcosa di “americano” e quindi certamente più efficace e superiore per qualità a qualsiasi medicina nazionale.
Perché a quel tempo era ancora vivissimo il mito dell’ “America” cosi che qualsiasi cosa giungesse da oltre oceano era sicuramente eccezionale. Così all’aspirina nostrana, venduta sotto forma di minuscole compresse rosa, si preferiva , quando si conosceva qualcuno che tornava dagli Stati Uniti, l’ ”aspirina americana“, il Bufferin, le cui pasticche erano bianchissime e molto più grandi, ma soprattutto made in USA. Che tu avessi preso un brutto voto a scuola o soffrissi di mal di testa, l’aspirina americana curava tutto.
Ho 50 anni e come la maggior parte di quelli della mia generazione, sono cresciuto scorrazzando in strada, con le ginocchia sempre sbucciate per le cadute dalla bici e i palmi delle mani scartavetrati dall’asfalto sul quale giocavamo a calcio. Tirato su a uova sbattute con lo zucchero, pollo al forno la domenica a pranzo, alcool per le ferite e aspirina per tutto il resto. E siamo ancora qui. Grazie nonna.