L’incanto dello stato d’emergenza: tentazione per pubblico e privato
Non più stato d’emergenza, ma una prospettiva di convivenza col problema: eccitazioni, suggestioni ed eroismo che non vogliamo abbandonare?
Stato d’emergenza e i suoi effetti. Si era fatto tutto un parlare di “fase 3”. Il dopo-emergenza. La ripartenza, sollecitata dall’economia ma anche dagli psicologi, preoccupati dei traumi invisibili che potevano annidarsi nel lockdown di ognuno di noi. Gli esperti, sicuri di sé e mai impreparati, ci hanno spiegato perché e come ne saremmo dovuti uscire; sia sul fronte pubblico che su quello personale.
Ma sta di fatto che il virus non molla: ha indebolito, dicono, la sua carica di letalità ma non la sua capacità di attaccare un soggetto esposto. Fattori auspicati, come l’avvento della stagione calda, non hanno portato gli effetti attesi. D’altro canto guardiamo le curve statistiche e non troviamo quello scalino o anche solo rampa discendente che ci aspettavamo. A livello mondiale i dati anzi non sono mai stati così severi, toccando purtroppo vari record. La verità è che nessuno ci ha capito granché, “esperti” compresi.
Da stato d’emergenza a convivenza
Quindi lo scenario a cui prepararci non sembra, nel medio termine, quello di un prima e di un dopo, quanto quello di un nuovo regime di vita. Non più dunque un’emergenza (parola che indica eccezionalità e transitorietà), ma una prospettiva di convivenza col problema, presumibilmente di lungo periodo.
A livello di programmazione pubblica, questo fa una certa differenza. Al provvedimento “straordinario” va fatto ora seguire un progetto “a regime”, alla decisione dall’alto il ritorno ai consueti iter delle istituzioni. Ma piace questo ai governi? Una volta digerita la realtà della pandemia. A giudicare dal lessico degli ultimi annunci e dalle proroghe di molti provvedimenti sembra proprio di no, e lo possiamo capire: in un’ottica straordinaria far passare le decisioni è più agevole e meno formale, il ricorso alla corsia preferenziale dei Dpcm ha mille giustificazioni e anzi strappa consensi.
In secondo luogo, diciamoci la verità, a voi verrebbe più facile mettere una pezza, il cui contesto di emergenza assolve chi la mette da qualunque pretesa di perfezione, o progettare un sistema stabile, ordinato, da cui ci attendiamo la lungimiranza, generalità e completezza dovuti a qualunque misura presa per durare?
Insomma, l’emergenza piace al potere.
E a noialtri? Pure, nonostante le apparenze e i proclami di segno opposto che pronunciamo al cospetto di consessi ben educati: c’è nell’emergenza un fascino sottile. Lasciateci dire perché, secondo noi. Escludendo, naturalmente, quelli che dal dilagare della pandemia hanno perso o ridimensionato il loro lavoro; a cui vanno solo solidarietà e auguri convinti.
Come in un film
Per prima cosa, l’evento eccezionale, anche quello fosco, è – come disse Hitchcock del cinema – “la vita con le parti noiose tolte”. Tutto è nuovo, romanzesco, a tinte forti; risveglia il bambino assopito in noi. Fateci caso, quando sembrò che il grosso fosse alle nostre spalle e si riaprirono i portoni, non vi prese forse – almeno a molti di voi – un qualcosa di parente della nostalgia? Di cosa? In questo caso di quel tempo sospeso; della suggestione della natura, che non ricordavamo così bella e lussureggiante e ricca, in terra cielo e mare; della riscoperta dei sensi: per strada o dai balconi, all’approssimarsi dell’ora di pranzo o di cena, coglievamo gli aromi delle altrui cucine; all’aperto, percepivamo un fondale di suoni finora nascosti: passi umani, ronzio di biciclette, voci, musica dalle finestre; come finora ci capitava solo a Venezia.
E gli spazi? Letterariamente avevamo etichettato i noti spazi urbani di solito affollati e ora improvvisamente vuoti come “sinistri”; ma, sotto sotto, ne potevamo ora ammirare geometrie finora invisibili, occultate dal traffico, armonie presenti non solo nei luoghi d’arte ma anche in insospettati vecchi quartieri popolari.
Stato d’emergenza: il fattore “eroismo”
E poi il nostro “eroismo”, avente come pubblico noi stessi e chi ci stava e starà intorno. Non più anonimi personaggi di scene di routine, ma protagonisti di qualcosa di forte. “… E anche voi potrete dire: “C’ero anch’io!”, recitava la sigla di un vecchio programma della tv in bianco e nero. C’ero anch’io, in Quel Tempo; e ho vissuto momenti drammatici, e di pericolo, e surreali, e anche grotteschi… Pensa quanto materiale, da animare per anni le cene con amici, la pausa-caffè in ufficio. Molti hanno inaugurato per la prima volta un diario.
Per non citare la controversa faccenda del telelavoro, oggi esoticamente smart working. Il tema è vasto e sfaccettato, e conta vari avversari; ma non c’è dubbio che per molti lavori è stato ed è un dono caduto dal cielo, che in tanti casi non inficia la qualità del lavoro svolto e, in più, libera dai tempi morti dei trasferimenti ed ottimizza l’organizzazione della giornata. Ditemi che queste persone non prolungherebbero lo stato “d’emergenza” ad libitum.
Che dire? C’è in noi un essere bifronte: se da un lato ci sentiamo tenuti a enunciare ad alta voce tanti buoni precetti di operosità, ansia di produttività, insofferenza delle limitazioni alla libertà, alla socialità, alla voglia di viaggiare…dall’altro il doppelgänger che è dentro di noi sogna, segretamente, le voluttà dell’emergenza.