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L’insolito maestro. Dall’Inghilterra con passione

Quando un’epoca storica tocca il suo apogeo, la ricchezza spirituale prende forme molteplici

Ritratto di Thomas Hobbes

Ritratto di Thomas Hobbes, filosofo inglese

Quando ci si interroga sull’identità europea – argomento sempre vivo e attuale nel corso degli ultimi decenni – bisogna mettere a fuoco, innanzitutto, alcuni macro-elementi strutturali, che ne hanno caratterizzato la specificità culturale e spirituale. Per quanto riguarda la cultura antica, abbiamo di fronte quattro radici, egualmente importanti: l’origine greca e l’innesto latino, da un lato. Dall’altro, l’origine ebraica e il contributo cristiano.

Queste matrici identitarie fondamentali reggeranno tutto il mondo antico, il Medioevo, fino alla conclusione del Rinascimento – la cui fine simbolica può essere individuata nel rogo di Giordano Bruno, in Campo de’ Fiori a Roma, il 17 febbraio 1600.

Verso il nuovo mondo

In seguito, però, nel complesso passaggio alla modernità, verranno fuori altre caratteristiche identitarie.

Il Mediterraneo esaurisce la sua spinta propulsiva, la sua importanza. Non è più questione di Atene, Roma, Gerusalemme. Nascono altre istanze, lo spirito del capitalismo innanzitutto. Colombo scopre l’America. Gli equilibri della potenza mutano e si trasformano. Machiavelli e Guicciardini saranno testimoni di questo immane processo. Con il Sacco di Roma del 1527, la palla passa a Carlo V.

Alla Spagna, alla Francia, al Portogallo, all’Inghilterra. Con Enrico VIII, con Elisabetta I – per quanto concerne la nazione inglese; con Francesco I, con Luigi XIV – per quanto riguarda la Francia. Il mondo cambia rapidamente; dall’assolutismo si avvia verso l’illuminismo. La seconda Rivoluzione inglese, alla fine del Seicento, la Rivoluzione americana e quella francese, alla fine del Settecento, preparano l’epoca attuale. A cui daranno un contributo decisivo, anche le due Rivoluzioni industriali.

Una cultura nuova

La storia del pensiero registra, immediata e brutale, il cambiamento in atto. Se l’ultimo filosofo del Rinascimento italiano è Giordano Bruno, che muore – come si accennava – arso vivo in Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600. Analogamente, Descartes e Pascal sono francesi; Spinoza olandese e Leibniz tedesco; Locke e Hume di area inglese; Voltaire, Rousseau e gli enciclopedisti di area francese; Kant e Hegel tedeschi.Tuttavia, se si passa dalla storia del pensiero ad un piano storico più generale, sono Inghilterra e Francia a dominare la scena, per tutto il corso della storia moderna.

La seconda Rivoluzione inglese pone le basi per le democrazie contemporanee. Ma è la Rivoluzione francese del 1789 a cambiare il mondo in profondità – non senza il contributo della Rivoluzione americana. Napoleone farà il resto. Ma il processo delle trasformazioni moderne sarebbe impensabile senza il contributo, nel bene e nel male, dell‘Impero Coloniale Britannico. Loro l’organizzazione. Loro il controllo. Loro la potenza.

Una testimonianza decisiva

Al di là delle storie generali e degli studi specialistici, esiste una testimonianza di prim’ordine, per quanto riguarda il Seicento inglese, ed è il libro di John Aubrey (1626-1697), “Vite brevi di uomini eminenti”. Esso fu tradotto per Adelphi, nel 1977, da Juan Rodolfo Wilcock, il magnifico scrittore italo-argentino, autore di “La sinagoga degli iconoclasti” (Adelphi) e di “Il libro dei mostri” (Adelphi). Non esiste, con ogni probabilità, una testimonianza di pari livello, per quanto concerne il secolo d’oro della storia, del pensiero, della letteratura inglesi.

Nel Seicento, l’Inghilterra fu davvero la “scuola del mondo”. Basti pensare che Aubrey era amico personale di John Locke, Thomas Hobbes, Isaac Newton. Quando un’epoca storica tocca il suo apogeo, la ricchezza spirituale prende forme molteplici.

È stato così per l’Atene del V secolo a. C., per la Roma del I secolo a. C., per la civiltà medievale tra 1200 e 1300, per il Rinascimento nei secoli subito successivi. Così, quella costellazione che si stringe tra i nomi di Elisabetta I e di William Shakespeare, consegna alla nazione inglese il momento del suo massimo splendore.

Il genio della sintesi

Aubrey scrisse brevi biografie. Qualcosa ci ricorda Plutarco, il grande intellettuale greco, vissuto nell’epoca che va da Nerone a Adriano, che compose le “Vite parallele” e che fu anche sacerdote a Delfi. Lo stile brillante, asciutto, che punta all’essenziale, è lo stesso. Qui siamo al di là delle divisioni settoriali tra discipline.

Non si tratta di essere storici, letterati o filosofi. Si tratta di qualcosa di più. La possibilità di essere, nello stesso tempo, tutte e tre le cose insieme. Ossia umanisti. Poiché l’umanesimo, antico e moderno, tiene al suo interno queste tre grandi macro-istanze o macro-esigenze: la filosofia, la storia, la letteratura. La filosofia, singolarmente presa, è soltanto una parte del tutto. Analogo discorso vale per la letteratura o la storia, singolarmente considerate.

La mano di Aubrey è di straordinaria efficacia. È possibile raggiungere un risultato di questo tipo, solo se si è consapevoli di essere testimoni di qualcosa di eccezionale. Solo se si intravede un punto di vista universale, che balena al contatto con le grandi epoche della storia dell’umanità.

Verso le cose ultime

In un’epoca di disgregazione e frammentazione come la nostra, dunque – in cui le persone sono infinitamente lontane dalle grandi problematiche culturali – non si può che assegnare al pensiero teorico un ruolo minore. “La filosofia è la cosa più seria di tutte, ma non lo è poi nemmeno tanto”, scriveva Adorno nell’introduzione alla sua “Dialettica negativa” (ed. it. Einaudi, p. 16).

Un grande intellettuale come Roberto Bazlen ha espresso questo tipo di istanze al massimo livello possibile di consapevolezza. Amico di Montale, scopritore di Svevo, fondatore della casa editrice Adelphi, maestro di Roberto Calasso.

Oggetto di meditazione letteraria da parte di Daniele Del Giudice, che gli dedicò “Lo stadio di Wimbledon” (1983, Einaudi), era capace di oltrepassare i confini tra le varie discipline umanistiche con grande leggerezza e rapidità. Racconta un altro dei suoi illustri amici, il grande critico letterario Sergio Solmi, come egli affermasse, nella seconda metà della sua vita, di essere interessato all’antropologia più che alla letteratura.

Ciò non nel senso dello strutturalismo di Lévi-Strauss. Ma nella modalità di cercare quanto vi è di autenticamente umano e di autenticamente vivo nelle espressioni letterarie. Di questa istanza, John Aubrey, come il suo predecessore Plutarco, è stato un maestro.