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L’Italia risale la china del rating: un premio alla coerenza e al coraggio politico

La valutazione delle agenzie di rating, pur con tutti i limiti, fotografa un trend. E il trend oggi dice che l’Italia sta tornando un Paese affidabile

Piazza Colonna, Palazzo Chigi (sede Governo)

Piazza Colonna, Palazzo Chigi (sede Governo)

Ci sono notizie che passano quasi inosservate ma che, in realtà, dicono molto più di quanto sembri. Il miglioramento del rating dell’Italia da parte di Standard & Poor’s a BBB+ è una di quelle. Un piccolo segno più, un mezzo gradino in su nella scala della fiducia finanziaria, che però racconta una lunga storia. Una storia fatta di scelte, errori, svolte improvvise, retromarce, compromessi e, finalmente, decisioni politiche coerenti.

La valutazione delle agenzie di rating

Perché la valutazione delle agenzie di rating, pur con tutti i limiti del caso, fotografa un trend. E il trend oggi dice che l’Italia sta tornando un Paese affidabile. Dopo anni di altalene, si avverte un consolidamento. La traiettoria è chiara: stabilità nei conti pubblici, capacità di gestione del debito, linea politica non schizofrenica. È questo che guarda chi investe e scommette sul nostro debito sovrano. Non le polemiche quotidiane, non le promesse elettorali. Ma i numeri e, soprattutto, la direzione in cui si muove la macchina dello Stato.

Per capire come siamo arrivati qui bisogna fare qualche passo indietro. L’anno zero di questa parabola è il 2011. Il governo Berlusconi cade sotto la pressione dello spread e della speculazione finanziaria. A novembre sale Mario Monti, chiamato a rassicurare i mercati e Bruxelles. Le sue politiche di rigore, pur impopolari, servono a evitare il tracollo. È l’epoca dell’austerità necessaria, quella che tiene a galla l’Italia ma frena la ripresa.

Il Jobs Act

Dopo Monti, arrivano Letta e Renzi. Il primo cerca di traghettare il Paese fuori dall’emergenza con prudenza. Il secondo tenta di imprimere una svolta riformista, con il Jobs Act, il bonus Renzi e alcune liberalizzazioni. Poi Gentiloni, che cerca di non sbandare troppo, mantenendo una rotta centrata sui saldi di bilancio.

Ma è nel 2018 che il quadro si complica. Il primo governo Conte, nato dall’alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle, segna una rottura. La politica economica prende una piega populista, fondata su promesse costose e soluzioni di breve respiro. Quota 100 e Reddito di cittadinanza diventano i simboli di una stagione in cui la sostenibilità dei conti passa in secondo piano. L’Europa guarda con preoccupazione, lo spread torna a salire, la fiducia internazionale si indebolisce.

Il Conte II non fa molto meglio. Cambia la maggioranza, ma non la confusione. Arriva la pandemia, e con essa la necessità di misure straordinarie. L’Italia entra in una fase di assistenzialismo di massa, giustificato dall’emergenza, ma gestito con approssimazione. Il Recovery Plan viene imbastito in fretta, senza una strategia chiara. Intanto il debito cresce, e con esso la distanza tra il Paese reale e le istituzioni.

L’arrivo di Mario Draghi

Il punto di svolta arriva nel 2021 con Mario Draghi. L’ex presidente della Bce prende in mano il timone e riporta ordine. Rassicurazione per i mercati, disciplina di bilancio, pianificazione del PNRR. L’Italia torna centrale nei consessi europei, anche se la sua permanenza a Palazzo Chigi sarà breve.

Con le elezioni del 2022, Giorgia Meloni sale al governo tra scetticismi e pronostici nefasti. C’è chi parla di rottura, chi teme derive sovraniste. Ma accade l’opposto. L’esecutivo si muove con pragmatismo. Nessuna spallata ai conti pubblici, nessuna fuga in avanti. La premier sceglie la linea della responsabilità. Mantiene un confronto serrato con Bruxelles, difende le prerogative italiane, ma senza rompere gli equilibri.

Nel frattempo, il governo accelera sul fronte del PNRR, rivede progetti, corregge distorsioni, prova a riportare al centro una visione industriale. La gestione del debito viene affrontata con realismo. Non ci sono colpi di teatro, ma una costanza operativa che inizia a dare i suoi frutti.

Il cambio di clima registrato da Standard & Poor’s

Ed è proprio questo che riconosce oggi Standard & Poor’s. Il giudizio positivo non è un premio a un singolo provvedimento, ma a un cambio di clima. È la certificazione che l’Italia non è più percepita come un rischio sistemico. Che, nonostante i debiti accumulati e le fragilità strutturali, è tornata a muoversi con coerenza.

Certo, i problemi non sono spariti. Il debito pubblico è ancora troppo alto, la crescita strutturale troppo bassa, la macchina dello Stato troppo lenta. Ma qualcosa si è mosso. E si è mosso da quando la politica ha smesso di rincorrere il consenso a ogni costo e ha cominciato a parlare il linguaggio della responsabilità.

La promozione di S&P, quindi, è una notizia che va oltre i tecnicismi. È un segnale politico. Un riconoscimento per chi ha saputo prendere decisioni difficili, evitando scorciatoie. In un Paese spesso ingessato da slogan e veti incrociati, vedere che la serietà paga è già una piccola rivoluzione.

La sfida ora è non interrompere questo cammino. I mercati hanno dato fiducia, ma non carta bianca. La stabilità va nutrita con riforme vere, la crescita va innescata liberando l’iniziativa privata, il welfare va reso più equo e sostenibile. Non basta migliorare il rating. Bisogna dimostrare di meritarselo, giorno dopo giorno.