ll labirinto della ragione e gli interpreti di Nietzsche
Il Novecento è stato un secolo in cui, da un punto di vista filosofico, l’influenza del pensiero di Nietzsche è stata preponderante e ha dettato legge
Nel corso dei duemila e cinquecento anni, in cui si dispiega l’arco del pensiero filosofico europeo, da Socrate e Platone fino ad Heidegger, Wittgenstein e Adorno, nessun filosofo occidentale è stato discusso, osteggiato, frainteso, come Friedrich Nietzsche. Eppure il Novecento è stato un secolo in cui, da un punto di vista filosofico, l’influenza del pensiero di Nietzsche è stata preponderante e ha dettato legge. Il problema è da individuare nella particolare ricezione della filosofia di Nietzsche nelle generazioni che a lui si sono succedute.
Un po’ di storia (del pensiero)
Nella filosofia europea, Nietzsche è una cometa, o una meteora. Nato nel 1844, a poco meno di trent’anni dà alle stampe “La nascita della tragedia”. Libro di un grecista, in cui però già si intuisce il polso del grande filosofo.
In quegli anni, Nietzsche vive stretto tra tre grandi nomi: Schopenhauer, il filosofo di riferimento; Wagner, il gigante della musica, cui lo lega un comune sentire del mondo; Burckhardt, lo storico svizzero con cui condivide una simile visione del mondo greco.Tuttavia, le potenti inquietudini del suo spirito non mancano di farsi sentire. Probabilmente, Wagner accettava solo subordinati e adoratori, mentre Nietzsche sentiva esplodere dentro di sé la forza del suo genio.
Attraverso “Umano troppo umano”, “Aurora”, “La gaia scienza”, Nietzsche si apre la strada verso qualcosa di completamente e straordinariamente nuovo. È il tempo di “Così parlò Zarathustra”. Attraverso una veste persiana, dirà G. Colli, Nietzsche propone la radicale visione del mondo e della vita, propria del pensiero greco arcaico. La sensazione di aver imposto al pensiero europeo qualcosa di radicalmente inaudito, è nettissima.
“Al di là del bene e del male” e “Genealogia della morale” – seppure opere di primissimo piano – non faranno che commentare, sviluppare, ampliare le concezioni di “Così parlò Zarathustra”. In breve giunge il tempo del tramonto e dell’epilogo.
La vita di Nietzsche si è mossa, dopo la rottura con Wagner, tra una tremenda solitudine e uno sforzo, di livello disumano, per cogliere i frutti maturi del suo pensiero. La chiusura verso il mondo è netta, irrevocabile. La madre e la sorella lo tormentano fino al punto di essere – come il filosofo dirà in “Ecce homo” – la più valida contro-argomentazione al pensiero dell’eterno ritorno.
Dioniso, la volontà di potenza, la morte di Dio, l’oltre-uomo (il celebre super-uomo, nella traduzione proposta da G. Vattimo) sono le altri grandi concezioni che Nietzsche riesce a strappare alla sua disperazione. Ma la fine incombe, inesorabile. A Torino, nel 1888, si consuma l’ultimo atto della tragedia. Nietzsche sperimenta la megalomania di livello superiore che solo la follia (o le droghe) possono assicurare.
Dal carteggio si evince come la trasfigurazione divina che Nietzsche sperimenta a Torino, sia il frutto dell’irrompere della follia. Nascono gli ultimi, incredibili, scritti: “Il crepuscolo degli idoli”, “L’anticristo”, “Ecce homo”, “Il caso Wagner”, “Nietzsche contra Wagner”, “Ditirambi di Dioniso”. Negli ultimi biglietti della follia si firma come “Dioniso” o “Crocifisso”.
Nell’ultima lettera a Burckhardt, del 6 gennaio 1889, scrive nell’incipit: “Caro signor professore, in fin dei conti sarei stato molto più volentieri professore a Basilea piuttosto che Dio; ma non ho osato spingere il mio egoismo privato al punto di tralasciare per colpa sua la creazione del mondo”. La via al manicomio è aperta e sarà senza ritorno. Nietzsche muore il 25 agosto 1900, dopo più di dieci anni di demenza. Ma il suo astro era sul punto di illuminare l’empireo della cultura europea.
Le conseguenze
Nella cultura del Novecento, Nietzsche occupa un ruolo di primaria importanza, come si accennava. L’unico paragone possibile è quello con Karl Marx. Eppure si tratta di una ricezione lenta, difficile, complessa, stratificata. Da una parte, ci sono grandi scrittori come Thomas Mann, Karl Kraus, Gottfried Benn.
Notevole, in Thomas Mann, è la conclusione del “Doktor Faustus” (1947), in cui la fine del protagonista del romanzo, è un calco della condizione di Nietzsche negli ultimi anni della sua vita. Ma, già i “Buddenbrook” (1901), la “Morte a Venezia” (1912), il debordante saggio “Le considerazioni di un impolitico” (1918) e poi “La montagna magica” (1924), brulicano di riferimenti e di atmosfere derivati dalle grandi opere di Nietzsche. Dall’altra, abbiamo grandi pensatori come Martin Heidegger, Karl Jaspers, Karl Löwith, Giorgio Colli.
Nel 1884, Nietzsche previde che per la comprensione autentica della sua opera, sarebbero stati necessari cinquant’anni. Ciò che regolarmente accadde. Il libro di Löwith, “Nietzsche e l’eterno ritorno” (1935, ed. it. Laterza), è straordinario per acume filosofico e precisione storiografica. Löwith era uno storico del pensiero filosofico di razza.
Cresciuto alla scuola di Heidegger, darà un’ulteriore prova del suo grande talento ermeneutico nel capitale “Da Hegel a Nietzsche” (1941, ed. it. Einaudi), ancora oggi tra le migliori opere disponibili sull’argomento.
Martin Heidegger, dopo il clamoroso exploit compiuto con la pubblicazione di “Essere e tempo” (ed. it. Longanesi) nel 1927, che lo porterà alla ribalta del dibattito filosofico europeo, comincia a tenere corsi su Nietzsche nel 1936. In concomitanza con la seconda fase della sua filosofia. Il risultato di questo lavoro interpretativo è il monumentale “Nietzsche” del 1961.
Libro capitale del pensiero contemporaneo, esso, attraverso Nietzsche, ripropone il corpo a corpo di Heidegger con la tradizione metafisica del pensiero occidentale, che attraversa anche il resto della sua opera.Lo stupendo libro di Karl Jaspers, “Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare” (ed. it. Mursia), è anch’esso del 1936.
Esso si caratterizza per un rigore ermeneutico e storiografico che lo accomuna a Löwith, da un lato. Dall’altro, condivide con l’impostazione di Heidegger il fatto di interrogare momenti decisivi del filosofare di Nietzsche, attraverso categorie del suo stesso pensiero filosofico. Gesto interpretativo ineludibile in ogni grande pensatore.
La bellezza dell’opera capitale di Jaspers consiste in questo: analogamente a tutti i suoi grandi libri – tra cui svetta “Filosofia” del 1932 (ed. it. Mursia), in tre volumi – c’è nel pensiero di Jaspers un’ampiezza delle categorie filosofiche, un’indipendenza da tutti i presupposti del pensiero tradizionale, una libertà e una sensibilità per la politica, che in Heidegger mancano.
Nietzsche restituito a sé stesso
Il lavoro storico-interpretativo di Colli avviene in una fase successiva, rispetto alle figure menzionate, anche per ragioni strettamente cronologiche. Uno dei grandi problemi della ricezione del pensiero di Nietzsche nel Novecento, è stata la mancanza di un’edizione critica solida, cui gli studiosi potessero fare riferimento.
Il merito di Colli è stato quello, insieme a Mazzino Montinari, di avere approntato una edizione storico-critica delle opere di Nietzsche, compresa l’enorme mole dei “Frammenti postumi” (i più difficili da interpretare correttamente), che può considerarsi definitiva.
Ciò per il tedesco, il francese, l’italiano (per Adelphi), il giapponese. Le magistrali interpretazioni di Colli sono affidate a “Dopo Nietzsche” (1974, Adelphi) e agli “Scritti su Nietzsche” (1980, Adelphi). Qui il pensiero del filosofo di Zarathustra viene scrutato nel suo intreccio inestricabile con la filosofia di Schopenhauer e con la grande cultura dei Greci dell’età arcaica, che Colli definiva sapienti.
Alla fine di “Dopo Nietzsche” – nel paragrafo-aforisma intitolato Il modello dell’integrità – Colli scrive: “Se la persona di Nietzsche è stata infranta, ciò non dimostra nulla contro di lui. In cambio egli ci ha lasciato un’immagine diversa dell’uomo, ed è con questa che dobbiamo misurarci noi”.