L’ultimo dei grandi: Alberto Arbasino e la sofferta esperienza dell’Italia
Era il meno provinciale, il più aperto al mondo dei nostri, pochi e sempre meno, grandi intellettuali
Non esiste sguardo migliore sull’Italia, di quello che è possibile ricavare dai nostri grandi scrittori. Da Dante Alighieri fino ad oggi. Dramma e consapevolezza, tragedia e una lente ustoria che sa scavare nelle nostre ferite, mancanze, lacrime e lacune. Dopo Umberto Eco e Guido Ceronetti, dopo un filosofo come Severino, è arrivato il momento del congedo da questa esistenza anche per Alberto Arbasino, uno degli ultimi grandi del ‘900.
Il quale si è spento, all’età di novant’anni, il 22 marzo del 2020. Partito da Voghera, in Lombardia, nel 1930, per lanciare la sua sfida al mondo, Arbasino ha saputo attraversare il nostro tempo, disarticolato e bislacco, con lucidità e consapevolezza. Cresciuto alla scuola della grande musica e delle grandi arti figurative, ancor più che a quella della letteratura, egli era il meno provinciale, il più aperto al mondo dei nostri, pochi e sempre meno, grandi intellettuali.
Fu esponente, da giovane, del Gruppo 63, insieme ad Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Giorgio Manganelli. Ultima avanguardia significativa della nostra letteratura. Di quella esperienza conservò sempre l’impronta. Quanto meno nella consapevolezza che, dopo Auschwitz e la bomba atomica e nel tempo della società dei consumi, ogni rappresentazione unitaria e classicistica del mondo, non può che risultare inadeguata.
Italiani malgrado tutto
Uno dei suoi ultimi libri importanti, si intitola “Ritratti italiani” (2014, Adelphi). Si tratta della testimonianza, sofferta e appassionata, della difficoltà di essere italiani. Di una terra che, dopo aver dato i natali a Dante e Lorenzo il Magnifico, a Leonardo e Machiavelli, a Michelangelo e Giordano Bruno, a Raffaello e Galilei, si è ritrovata ad essere, senza appello né margini di fuga, una Cenerentola della storia. Poiché questa è la conclusione, se si vuole fare il paragone tra Mazzini e Robespierre, tra Cavour e Napoleone, tra Mussolini e Churchill, tra Berlusconi e Mitterand.
Un’atmosfera piccola, asfittica, senza grandi spazi di redenzione. Se il problema fosse soltanto questo, di una dimensione provinciale legata al passato, poco male. Il dramma è che questa Italia – “di dolore ostello…non donna di provincie, ma bordello!” (Purgatorio, VI, vv. 76-78) secondo celebri versi di Dante – pesa come un macigno su ciascuno di noi. Su generazioni giovani e meno giovani.
L’ultima generazione di italiani significativa
Arbasino ne è perfettamente consapevole. In “Ritratti italiani”, ci offre lo spettacolo – è il caso di dirlo – dell’ultima generazione di italiani significativa da un punto di vista generale. Quella che è stata adulta nella seconda metà del Novecento. Non a caso, procedendo il libro in ordine alfabetico, il primo ad aprire la serie è Gianni Agnelli.
Ora, si possono avere mal di pancia, se si hanno sentimenti operaisti – del resto, Arbasino non fa mistero di muoversi in un’atmosfera di aristocrazia dello spirito – ma se Marchionne era un super-manager (sulle spalle degli operai, purtroppo), l’Avvocato Agnelli assomigliava, piuttosto, ad un signore del Rinascimento.
Si tratta, giustamente, di una rivendicazione di orgoglio e, allo stesso tempo, della consapevolezza di grandi difficoltà. Arbasino è appassionato della scoperta, della ricerca, è in grado di padroneggiare qualsiasi tema appartenga al dominio delle scienze umanistiche. Soprattutto è innamorato della competenza, in ogni caso un bel pallino per un paese come il nostro, in cui c’è chi vorrebbe discettare di vaccini, senza essere nemmeno infermiere!
Ma se c’è una caratteristica che conferisce al libro vita autentica, è che quasi ogni ritratto – tranne le figure che, per ragioni storiche e cronologiche, l’autore non poteva incontrare e che non sono moltissime – è basato non solo sulla conoscenza dell’opera e del pensiero dell’autore trattato, ma sul dialogo diretto. Sullo scambio e l’incontro personali.
In un Paese stregato
Se la canzone di Petrarca, da cui sono tratti gli ultimi versi del “Principe” di Machiavelli, si intitola “Italia mia, benché ʼl parlar sia indarno” (Canzoniere, 128), è perché l’Italia, come progetto complessivo, ha sempre fatto molta fatica a decollare. Forse aveva ragione Massimo D’Azeglio, quando disse la celebre frase che fatta l’Italia, ciò che sarebbe stato veramente difficile, era fare gli italiani. Certo D’Azeglio non poteva immaginare cosa sarebbe successo nel XX secolo.
Il gioco pesante del fascismo, poi della guerra fredda, della stagione delle stragi e del terrorismo nero, di Gladio e dei servizi segreti deviati, delle Brigate rosse e delle stragi mafiose, della Democrazia cristiana e di Berlusconi. E, forse, essere un popolo mite, incapace di dominare i giochi troppo pesanti delle controversie internazionali esercitati sulla nostra pelle, non può essere attribuito agli italiani come una colpa.
Nonostante tutto…
Nonostante tutto questo, nella contemporaneità, ci ricorda Arbasino, il nostro paese ha avuto nomi come quelli di Carlo Emilio Gadda e Roberto Longhi, Eugenio Montale e Gianfranco Contini, Giorgio De Chirico ed Italo Calvino, Alberto Moravia ed Ennio Flaiano. Passando per Luciano Berio e Luigi Nono, Eugenio Garin e Norberto Bobbio, Emilio Cecchi e Umberto Eco. Proseguendo con Fellini e Antonioni, Visconti e Bernardo Bertolucci, Sophia Loren e Nanni Moretti.
E ancora Einaudi e Feltrinelli, Giorgio Manganelli e Ottiero Ottieri, per concludere con Alberto Savinio (fratello di De Chirico) e Pier Paolo Pasolini, Mario Praz e Angelo M. Ripellino. Ed altri se ne potrebbero aggiungere, a completare il quadro del Novecento italiano, da Luigi Pirandello e Italo Svevo, a Saba e Ungaretti, a Leonardo Sciascia, a Benedetto Croce, Guido Calogero e Giorgio Colli.
Un’Italia che non rivedremo più
E oggi? Oggi vivacchiamo in un regime di tecnocrazia, in cui la politica si fa nei salotti televisivi e sui social network. In cui le poche forze residue degli italiani sono risucchiate da milioni di commenti su internet, che per lo più non avranno motivo di essere ricordati, se non per la cattiveria gratuita o la stupidità. Il libro di Arbasino, allora, può essere considerato il testamento di un’Italia che, molto probabilmente, non rivedremo più e con cui dovremmo confrontarci, se vorremo tornare a crescere, in futuro, nella mente e nel cuore…