M5S: c’è il sì alle Regionali. Ma il minivoto su Rousseau conferma la maxi crisi
Partecipazione assai modesta, pari a meno del 22 per cento. Se si trattasse di elezioni si griderebbe all’astensionismo di massa: qui si acclama la volontà degli iscritti
Oplà.
Si è formulato il quesito di giornata e lo si è sottoposto agli “aventi diritto al voto”. Che come riporta il Blog delle Stelle ammontano a 125.018, ma che si sono espressi solo in 27.273.
La domanda era questa: “Vuoi che il MoVimento 5 Stelle osservi una pausa elettorale fino a marzo per preparare gli Stati Generali evitando di partecipare alle elezioni di gennaio in Emilia-Romagna e Calabria?” e l’esito è stato una netta vittoria dei no, che hanno prevalso per 19.248 (70,6 %) contro 8.025 (29,4).
Tutto risolto, quindi? Le recenti perplessità spazzate via da una nuova e “bella” prova di democrazia interna?
Nemmeno per idea.
Come sempre, in una consultazione di natura politica, i numeri sono tutt’altro che ininfluenti. E i numeri, in questo caso, sono al limite del risibile. Anche sorvolando su quanto sia innaturale che un soggetto del calibro dei Cinquestelle abbia appena 125.018 persone abilitate a esprimersi attraverso la piattaforma Rousseau, la partecipazione al voto di ieri è di poco superiore al 20 per cento. Significa, dati alla mano, che meno di ventimila iscritti hanno determinato le scelte di una forza che sia pure in calo verticale nei sondaggi è tuttora la prima compagine parlamentare.
Questa non è vera democrazia, ma il suo simulacro. Per non dire la sua parodia. E diventa un alibi per quei vertici, a cominciare da Luigi Di Maio, che avrebbero il compito di stabilire le mosse da effettuare. Per poi rispondere della loro efficacia o del loro fallimento.
Già ieri mattina, invece, lo stesso Di Maio aveva messo le mani avanti dichiarando, ai microfoni di La7, che «le decisioni importanti vanno prese anche con gli iscritti, io i più grandi errori li ho fatti sempre quando decidevo da solo».
Ma che razza di ragionamento è?
Se quando decidi «da solo» prendi una cantonata via l’altra, dovrebbe essere chiaro e indiscutibile che non sei all’altezza di rivestire il ruolo di “capo politico”.
Tutt’al più, quello di cancelliere verbalizzatore. O di portavoce mediatico.
Ma leader proprio no.
M5S: se non tiri mai le somme…
Elementare. Qualsiasi cura presuppone una diagnosi. E quella diagnosi non si può permettere nessuna indulgenza che ne attenui la verità. Come ammonisce il proverbio, “il dottore pietoso fa la piaga purulenta”.
Al di là di tutti i possibili travisamenti interessati da parte dei media, e degli avversari politici, la spiacevole verità è che il M5S è in gran parte vittima dei suoi stessi vizi. Attenzione: non semplici sviste, o errori di percorso, o sbandate occasionali.
Vizi.
A partire dalla colossale sciocchezza del roboante quanto puerile e infondato “Uno vale uno” e per proseguire con la mistica, a dir poco prematura, della democrazia diretta. Tanto più se attuata, si fa per dire, sulla base dei numeri che abbiamo già ricordato in apertura e con la pessima tendenza a lanciare quesiti di punto in bianco e a chiudere le votazioni in un tempo assurdamente breve. Talmente breve, anzi, da far pensare che lo si faccia apposta per sfavorire una partecipazione più ampia (e se poi non c’è il dolo c’è l’ottusità: che non è comunque il presupposto ideale per chi aspiri a guidare un intero Paese).
Questo per quanto riguarda le premesse. Se poi si passa alle posizioni di merito, il quadro non si fa certo più limpido. E tantomeno più rassicurante.
Come dimostrano le mille insofferenze e i troppi ammutinamenti, nonché le ricuciture di facciata e le tregue armate tra gli eletti di prima o di seconda fila, su molte questioni – cruciali – non è mai arrivato un chiarimento definitivo e inequivocabile. Dal modello economico all’atteggiamento verso la UE e verso l’Euro, dall’immigrazione alle eventuali alleanze di governo, si è lasciato che ognuno si immaginasse le risposte a modo suo.
Della serie: intanto vinciamo noi, poi ci si penserà.
Della serie: se non è un inganno deliberato, allora è una superficialità imperdonabile.
Chi abbia a cuore il M5S, per ciò che è stato capace di suscitare in tanti cittadini desiderosi di un profondo risanamento sociale, dovrebbe ripartire da qui.
Dal prendere atto che quello che ha colpito il MoVimento non è un raffredorino stagionale e passeggero. Ma una malattia grave, gravissima. E probabilmente letale, se non si interviene sul serio e se ne eliminano le cause.
I militanti e i sostenitori che conservano lo slancio e le motivazioni delle origini sono chiamati a trovare questa scoscesa ma vivificante consapevolezza. Che non equivale affatto a chinare la testa di fronte alle critiche, più o meno compiaciute, di chi non vedeva l’ora che il MoVimento fallisse. Tutto il contrario: questa drastica diagnosi è/sarebbe il modo migliore per recuperare la propria voglia di battersi e farne un uso migliore. Un processo che però, attenzione, non si può risolvere in un’autocritica lampo. Ma esige che si vada al fondo di ciò che ha determinato i disastri oggi evidenti.
I quali, appunto, sono la manifestazione palese di abbagli e di ambiguità che erano già emersi a più riprese e che si sono accumulati via via, fino a portare ai fallimenti in serie degli ultimi mesi.
E il primo chiarimento – probabilmente il più doloroso e difficile – riguarda Beppe Grillo. Che è stato straordinario come capopopolo nelle manifestazioni di piazza. Ma che progressivamente si è trasformato nella prima causa di disorientamento sull’identità e sugli obiettivi dei Cinquestelle.
Se per diventare adulti bisogna “ammazzare il padre”, che lo si ammazzi. In caso contrario, si resterà dei bimbetti che dipendono dai capricci, per non dire di peggio, dell’ormai imprevedibile “nonno bizzoso”.