M5S. Regionali Campania: dalla base un poderoso vaffa agli accordi col PD
L’assemblea ufficiale degli attivisti rivendica a gran voce la lontananza da Zingaretti e soci. Ma Roberto Fico traccheggia
Finalmente. Finalmente una buona notizia che arriva dall’interno del M5S. E che conferma l’abissale distanza che si è instaurata tra i vertici e molti dei sostenitori del MoVimento.
L’assemblea che si è svolta ieri a Napoli la dice lunga, in questo senso. Pressoché all’unanimità, l’esito del confronto interno è stato agli antipodi della linea decisa/imposta da Beppe Grillo e assecondata, poco importa se per convinzione o per malintesa lealtà nei confronti del fondatore e sedicente Garante, dai suoi luogotenenti a cominciare da Di Maio. A tantissimi quella odiosa giravolta, che ha portato al secondo Governo Conte, è rimasta sul gozzo. E giocoforza la crisi di rigetto, dopo essersi manifestata sia nelle urne sia nei sondaggi, sta emergendo anche nelle riunioni degli attivisti.
In attesa degli “stati generali”, che dovranno affrontare il problema su scala nazionale, il segnale che arriva dalla Campania è inequivocabile. Alla presenza di Roberto Fico, che poi si è arrampicato sugli specchi per evitare di pronunciarsi nel merito della questione, la quasi totalità degli interventi è stata all’insegna di un messaggio chiarissimo: nessuna disponibilità a intese con il PD, in vista delle Regionali che si svolgeranno il prossimo 31 maggio (unitamente a quelle in Liguria, Marche, Puglia, Toscana e Veneto).
Vediamo qualche esempio.
Come riferisce il Fatto Quotidiano, “la consigliera regionale Maria Muscarà ha chiesto se ci siano ‘accordi romani per un’alleanza con i democratici. «Se è così, ditecelo, e prenderemo altre strade». Ancora più duro Matteo Brambilla, consigliere comunale di Napoli ed ex candidato-sindaco del Movimento: «Sono arrabbiato, non avrei mai pensato di dover discutere di questo. Se si tratta di mettere una croce sul nostro simbolo affiancato a quello del PD, non avrete mai il mio voto, né quello della mia famiglia»”.
La contrapposizione è smaccata e lacerante. E paradossalmente apre uno spiraglio di speranza riguardo al futuro del MoVimento. Mentre i vertici sono soggiogati dalle logiche della realpolitik, con i suoi opportunismi contorti e spesso autolesionistici, molti dei militanti e degli elettori non ne vogliono sapere e ritengono, giustamente, che quella pseudo concretezza vada in direzione opposta ai valori originari. Originari e fondanti. Fondanti e perciò, senza girarci intorno, irrinunciabili: quando ti snaturi per arrivare al potere non sei affatto un grandioso stratega. Sei solo l’ennesimo, piccolo opportunista che si è lasciato risucchiare nel canonico abbaglio del parvenu in carriera: giocare con le regole stabilite dagli altri nell’illusione di poter vincere.
A proposito: vincere per chi? Per quelli che ti hanno dato credito e spedito a rappresentarli in Parlamento, o piuttosto per te stesso?
I nuovi Don Abbondio
Dicevamo di Roberto Fico. E di come si sia destreggiato (si fa per dire) nell’intento di non esprimere nessun giudizio personale sulla levata di scudi alla quale aveva appena assistito.
L’atteggiamento è stato quello tipico di chi ormai fa parte della classe dirigente e suo malgrado si ritrova immerso negli umori, e nei malumori, della base. Dare ragione ai dissidenti non può. Contrattaccarli apertamente, nemmeno.
Ed ecco allora il classico rifugio nella dilazione, però pensosa. Di qua un attestato di interesse per ciò che è stato detto. Di là qualche riflessione problematica sul da farsi.
Un cocktail da quattro soldi che è arcinoto, a meno di essere dei perfetti sprovveduti, e che sotto altre bandiere è stato utilizzato in innumerevoli occasioni. Un beverone che per chi lo ammannisce è collaudato. Mentre per chi lo deve, o dovrebbe, trangugiare è stomachevole.
«Per me – dice Roberto Fico, il punto davvero importante è aver ascoltato tutti, e questo prescinde un po’ dall’idea di costruire un percorso nuovo in Campania. I facilitatori regionali riporteranno a Vito Crimi queste opinioni e si deciderà».
Appunto: si deciderà altrove. In altre sedi. In altre assemblee. Insieme ad altri soggetti che si suppone, o si spera, saranno meno riottosi. Meno refrattari agli accomodamenti ragionevoli di chi si aggrappa alla solita scusa: scendere a patti per salire di ruolo. I nemici mortali ridimensionati di colpo a semplici avversari. O persino a possibili partner: ufficialmente, perché non si può fare altrimenti; in realtà, perché non si vedeva l’ora di accomodarsi ai piani alti dell’establishment.
E vai con le acrobazie dialettiche, allora. Vai con i “ma anche” alla Veltroni.
Ancora Fico: «Si è detto che siamo contro il sistema, è vero nel senso che vogliamo cambiarlo, ma siamo anche parte delle istituzioni, io sono la terza carica dello Stato e il Movimento parteciperà alle nomine, a partire dalla Rai. Possiamo decidere di dimetterci tutti e di stare all’opposizione, ma sono convinto che la fotografia della Campania a giugno non sarà diversa da quello di adesso».
Senza volerlo, gli è scappata la verità. La pretesa, impossibile e capziosa, di mettere insieme il diavolo e l’acqua santa. Il diavolo delle istituzioni, che non possono essere celebrate in astratto ma che devono essere valutate per ciò che sono concretamente diventate dopo decenni e decenni di partitocrazia. L’acqua santa dell’essere contro il sistema, a patto che lo si sia davvero e nel senso pieno del termine.
Non solo per introdurre qualche correttivo di contorno. Ma per stravolgerne, e quindi bonificarne, i presupposti, le prassi, gli obiettivi.
L’esatto contrario di ciò che fanno, da sempre, gli Zingaretti, i Gentiloni, i Mattarella, i Renzi, e chi più ne ha più ne metta.