Made in Japan: i Deep Purple inaugurano la storia dei live cd
Una pietra miliare sia della musica hard rock che della cultura degli anni ’70, Made in Japan. Un disco da ascoltare a tutto volume
C’è stato un periodo, all’inizio degli anni ’70, in cui una band ha rappresentato lo spirito del rock più delle altre. Non stiamo parlando dei dei Rolling Stones o dei Led Zeppelin, che proprio in quel periodo uscivano rispettivamente con Sticky Fingers e Led Zeppelin IV, ma dei Deep Purple di Ritchie Blackmore e Ian Gillan. Per capire di cosa stiamo parlando basta riascoltare Made in Japan del 1972, il manifesto massimo dell’energia del live e il lavoro che ha inaugurato ufficialmente l’epopea della riproduzione dei concerti su disco.
Deep Purple immortali come la fenice
Nati nel 1968, scioltisi nel ’76, rinati nel 1984 e tutt’ora in giro per i palchi di tutto il mondo, i Deep Purple hanno vissuto nella loro lunga storia continui cambi di formazione ma nessuna ha mai eguagliato la leggendaria “Mark 2”, ovvero quella composta di Ritchie Blackmore alla chitarra, Ian Gillan alla voce, Roger Glover al basso, John Lord alle tastiere e Ian Paice alla batteria.
Made in Japan è furia rock n’roll
Ed è proprio con questa formazione che i cinque registreranno Made in Japan, documento della loro tournée estiva in Giappone del 1972 (nel disco compaiono le registrazioni delle date di Tokyo e Osaka) e espressione massima della loro furia rock n’roll, ma allo stesso tempo con grandissima precisione tecnica.
Il disco, per cui leggenda narra che non siano state utilizzate sovraincisioni o aggiustamenti in studio, inizia con la batteria di Ian Paice, dapprima lenta e avvolgente e poi sempre più ritmata e potente. Su questo tappeto percussivo arriva dal nulla la voce graffiata di Ian Gillan a dare il via alle danze. E l’inizio è tutto per Highway Star, una delle canzoni più belle mai scritte dalla band (e forse dell’intera storia dell’hard rock). In quei 6 minuti e 51 secondi ci sono due dei più trascinanti assoli del repertorio dei Purple, quello di Lord con organo e tastiere e quello di Blackmore, mai così espressivo con la sua Fender Stratocaster.
Il secondo capitolo del disco si apre sulle dolcissime e delicate note di xilofono di John Lord che ci introduce ai dieci minuti di Child in Time, un pezzo che meriterebbe una trattazione a sé stante. Un crescendo di emozioni, di velocità e intensità coronata in maniera perfetta dalla splendida voce di Gillan che nel finale ci porta in un altro mondo, difficile ma estremamente romantico, con i suoi acuti strazianti.
Smoke on the water, un superclassico
Il lato B inizia con Smoke on the water, una delle canzoni più belle di tutti i tempi dedicate al mondo del gioco e destinata a diventare l’inno della band. Nel disco è eseguita con così tanta energia e perizia tecnica da superare la versione da studio uscita pochi mesi prima in Machine Head.
Energia che ritorna prepotente anche in The Mule, altra lunga traccia (9 minuti e 49 secondi), impreziosita dal travolgente e coinvolgente assolo di batteria di Paice. Quinto episodio di Made in Japan è Strange Kind of Woman, altro grande classico del gruppo. Nella versione live lo shuffle blues originale viene stravolto nel finale con Gillan e Blackmore spettacolari in un call and response in cui il cantante è magnifico nel riprodurre alla perfezione le altissime note proposte dal chitarrista.
Si arriva così agli ultimi due capitoli di Made in Japan, ovvero Lazy e Space Truckin’. La prima vede in grande spolvero Lord e Blackmore, impegnati in assoli dall’ottimo gusto e dalla grandissima tecnica. La seconda è forse la canzone più distante rispetto alla versione da studio. Il brano che in Machine Head aveva una durata di 4 minuti e 35 secondi si espande fino a toccare i 20, trasformandosi da tradizionale pezzo hard rock a vera e propria suite psichedelica resa magica dall’organo Hammond di Lord.
Una pietra miliare sia della musica hard rock che della cultura degli anni ’70, Made in Japan. Un disco da ascoltare a tutto volume e da consigliare a chi si approccia per la prima volta a un genere che ha scritto pagine importanti della musica popolare del ventesimo secolo.