Marco Tullio Cicerone e la “Repubblica”: una suggestione
Non fu mai un vero filosofo, ma un grande letterato, un pensatore acuto, un grande politico
Mentre la crisi delle istituzioni repubblicane precipitava, inesorabile, verso la sua fine, Cicerone compose la sua “Repubblica”. La sfida fu alta e impegnativa anche per lui – che pure non fu mai un vero filosofo, ma un grande letterato, un pensatore acuto, un grande politico, il volto stesso dell’umanesimo latino – poiché il titolo richiamava direttamente la “Repubblica” di Platone.
Se, come scrisse Giorgio Colli in una bellissima poesia contenuta in “La ragione errabonda” (1982, Adelphi), le albe del Pireo arrossivano per la tristezza del Maestro di Atene. Così è possibile dire che il Tevere ancora pianga per la sfortunata sorte del migliore dei suoi figli. Cicerone fu, infatti, abbattuto dai sicari di Antonio, senza tanti convenevoli, dopo che si era scatenata la lotta di potere successiva alla morte di Giulio Cesare. Tra gli ultimi, e sommamente crudeli, atti delle guerre civili.
Soltanto la politica
Splendidamente introdotto, tradotto e curato da Francesca Nenci per Bur, il “De re publica” di Cicerone è tutt’altro che un’opera di semplice lettura. Poiché, al contrario di molti altri libri ciceroniani, ci è giunto allo stadio di frammento. Il gesuita Angelo Mai scoprì i frammenti di quest’opera sotto un codice di Agostino, nella Biblioteca Vaticana, alla fine del secondo decennio dell’Ottocento.
Poco dopo, un giubilante e giovane Giacomo Leopardi scrisse la canzone “Ad Angelo Mai quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della ‘Repubblica’”, che ora figura come terza composizione nella raccolta dei “Canti”. Che l’opera non sia, per noi, accessibile integralmente, non ne diminuisce l’importanza. Essa ci apre le porte al cuore segreto della Roma antica, così come fanno i frammenti dei Presocratici per quanto concerne la cultura greca.
Poiché, se è possibile dire che l’esperienza della politica fu soltanto una, seppure determinante, tra le molte esperienze della vita culturale greca. Con altrettanta certezza, è possibile affermare che la politica fu, per l’antica Roma, la dimensione fondamentale e più alta dell’esistenza. “Totus politicus” è, per Luciano Canfora, Augusto, nello splendido libro “Augusto figlio di Dio” (2015, Laterza).
Dunque la vita pubblica, lo Stato, la Repubblica, poi l’Impero, nonché il diritto erano al centro della concezione romana della vita. “Ubi societas, ibi ius” (“dove vi è società civile, là vi è anche il diritto”), dice il vecchio adagio. Questa esperienza fece dire ad Hannah Arendt, al principio di “Vita activa” del 1958 (ed. it. Bompiani), che i romani furono il popolo più dedito alla politica che la storia umana abbia mai conosciuto.
Per Cicerone questo modus vivendi grandioso, raggiunse il suo culmine con il circolo degli Scipioni, tra III e II secolo a. C.. Non a caso, Scipione Emiliano è il grande personaggio intorno a cui ruota il “De re publica”. Non a caso, quando Niccolò Machiavelli, il pensatore politico più profondo del Rinascimento, volle scrivere la sua opera teoricamente più impegnativa, lo fece in un libero commento allo storico romano Livio.
Ne nacque quel capolavoro assoluto che sono i “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, opera meno conosciuta ma, forse, addirittura più profonda del leggendario “Principe”.
Temo i Greci anche quando portano doni
Lucio Emilio Paolo sconfisse i macedoni di Perseo – ormai pallida controfigura di ciò che erano stati al tempo di Filippo II e di suo figlio Alessandro Magno – a Pidna, nel 168 a. C.. La Macedonia si avviò a diventare provincia romana e l’appropriazione latina della Grecia divenne un fatto politico e imperiale, oltreché culturale.
Si trattò di quell’evento, decisivo e carico di conseguenze, incastonato da Orazio in versi magnifici, nel II libro delle “Epistole”: “La Grecia, assoggettata, conquistò / il rozzo vincitore ed introdusse / le arti nel Lazio agreste” (trad. it. di C. Carena). Tuttavia resisté una specificità latina, anche sul piano culturale e i grandi romani, tra cui gli Scipioni e Cicerone, lo sapevano e lo rivendicavano.
La fusione perfetta tra Grecia e Roma, fu rappresentata da Plutarco. Intellettuale greco tra I e II secolo d.C., filosofo raffinato di ispirazione platonica ma non solo, sacerdote a Delfi, compose le “Vite parallele”. In esse, affiancò un personaggio della storia greca e uno della storia romana, narrando, con altrettanta passione, sapienza e naturalezza, le due metà del mondo occidentale di allora.
Del resto, il filelleno Adriano, coevo di Plutarco, si muoveva nella stessa direzione e la magnifica “Villa Adriana”, nei pressi di Tivoli, ne è la testimonianza. Il brillante, dotto, appassionato e appassionante Cicerone – pressoché l’opposto dell’immagine che, di lui, ci facciamo attraverso la scuola – seppe giocare bene le sue carte, volendo ripercorrere, per di più in forma di dialogo, le orme di Platone. Se la “Repubblica” platonica è un libro abissale, il suo “De re publica” ci permette di mettere a fuoco, forse definitivamente e una volta per tutte, il senso dei romani per la politica. Non è poco, naturalmente…