Mario, primo suicidio assistito in Italia: vuoto normativo e dubbi sull'(in)disponibilità della vita
Il caso di Federico “Mario”, primo suicidio assistito nel nostro Paese, ha rimesso a fuoco il tema del fine vita in Italia
A distanza di pochi giorni il caso di Federico, primo suicidio assistito nel nostro paese, e Fabio, arrivato alla morte tramite sedazione profonda e continua hanno rimesso a fuoco il tema del fine vita.
Federico e il suicidio assistito
Quello di Federico Carboni, conosciuto sui giornali con il nome di “Mario”, è il primo caso in Italia di suicidio assistito esercitato legalmente. Si tratta di un 44enne marchigiano tetraplegico da 12 anni dopo un incidente stradale. “Non nego che mi dispiace congedarmi dalla vita. Sarei falso e bugiardo se dicessi il contrario perché la vita è fantastica e ne abbiamo una sola ma purtroppo è andata così ora finalmente sono libero di volare dove voglio”, ha dichiarato prima della procedura. Federico ha potuto compiere questo oggetto in virtù di una raccolta fondi attivata dal Associazione Luca Coscioni alla quale ha dichiarato tutta la sua gratitudine. L’uomo viveva senza la minima autonomia fisica, impossibilitato a svolgere qualsiasi movimento. La legge italiana ha dunque autorizzato questo fine vita ma non lo ha reso materialmente attuabile come servizio sanitario.
Fabio Ridolfi, sedazione profonda
Pochi giorni prima, Fabio Ridolfi, 46 anni, da 18 anni immobilizzato a letto a causa di una rottura dell’arteria basilare ha ottenuto di porre fine alla propria condizione di “sofferenza insopportabile”. Da quattro mesi aveva chiesto l’aiuto medico al suicidio, rientrando nelle condizioni previste dalla Corte costituzionale. “Fabio Ridolfi è morto senza soffrire, dopo ore di sedazione e non immediatamente come avrebbe voluto” spiegano dall’Associazione Luca Coscioni.
Ritardi e rimpalli da parte del servizio sanitario l’hanno portato a scegliere la sedazione profonda e continua e la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale, hanno spiegato i familiari.
Eutanasia e suicidio assistito
Ricordiamo che il suicidio assistito, ossia l’aiuto medico rivolto a un soggetto che ha deciso di morire, è differente dall’eutanasia, perché l’atto di togliersi la vita avviene mediante autosomministrazione le sostanze necessarie è compiuto interamente dal soggetto stesso e non da terzi. In Belgio, Colombia, Lussemburgo, Paesi Bassi Svizzera stati dell’Oregon Washington Mentana California il suicidio assistito è permesso in base a diverse condizioni cliniche e psicologiche. In Svizzera la persona che vuole accedere al suicidio assistito deve trovarsi in condizioni di sofferenza inguaribile, essere giudicato capace di intendere e di volere e rispondere ad altri criteri.
L’argomento dell’indisponibilità della vita
Le questioni etiche in merito sollevano accese discussioni in ambito politico e filosofico. Gilberto Corbellini, professore di Storia della Medicina e docente di Bioetica presso la Sapienza di Roma, intervistato nel 2015 sul tema del fine vita spiegava le resistenze morali e culturali ad accettare il suicidio assistito.
“Le ragioni sono fondamentalmente due. Da un lato l’atteggiamento delle religioni, che esistono in fondo per esercitare un controllo sulla nascita, sulla cura e sulla morte, sulla base dell’assunto che la vita non è nella disponibilità delle persone. Nel caso della religione cattolica, la vita è un dono di Dio e solo quest’ultimo può decidere quando riprendersela: si commette un reato e un peccato mortale suicidandosi o aiutando qualcuno a suicidarsi. Il secondo motivo è l’atteggiamento paternalistico che si mantiene nel rapporto tra medico e paziente, e che di fatto significa che il medico non vuole che il proprio giudizio espresso in scienza e coscienza rimanga al di sopra di quello del paziente”.
Laura Palazzani ordinario di filosofia del diritto all’università Lumsa di Roma e membro della pontificia Accademia per la vita commenta la vicenda.
“Sono sorpresa perché oggi in Italia abbiamo una sentenza della Corte costituzionale che ha aperto all’idea del suicidio assistito ma non abbiamo una legge in merito. La proposta di legge arrivata in Parlamento è stata approvata dalla camera ma deve ancora essere discussa al Senato”.
Inoltre, afferma, “la situazione di Mario non rientrava nemmeno nelle condizioni stabilite dalla Corte Costituzionale che stabilisce infatti come eccezione che la persona interessata sia in grado di intendere e volere abbiano malattia inguaribile, una sofferenza insopportabile e sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale mentre Mario non aveva condizioni e trattamenti di questo tipo”.
La docente spiega che ci sono due correnti di pensiero in merito all’argomento della piena disponibilità della vita: c’è chi ritiene che un soggetto debba avere una piena disponibilità della propria vita e possa disporne in modo libero e c’è invece un’altra corrente di pensiero che ritiene che la vita sia un bene indisponibile e che in queste situazioni sia necessario per esempio l’accompagnamento palliativo, ma non il fine vita. Tecnicamente in questo caso il paziente in stato di inguaribilità può accedere alla sedazione profonda, ad esempio tramite morfina.
Ma in questo caso la morte è causata dalla malattia di cui affetto e non direttamente dal farmaco. Si tratterebbe dunque di lasciar morire il malato e non di provocarne la morte, aggiunge.
Anche la filosofa accenna al rapporto tra medico e paziente: dal punto di vista deontologico aprire al suicidio assistito sarebbe un grande cambiamento nella figura del medico, il quale giura di curare il paziente come sosteneva Ippocrate dal quinto secolo avanti Cristo.