Martin Heidegger: un presocratico nella Germania del Novecento
Egli è l’ultimo anello di quell’aurea catena che, nella filosofia europea, inizia con Platone
Uno dei massimi filosofi del Novecento, Martin Heidegger, si spegneva a Friburgo quarantacinque anni fa, il 26 maggio 1976. Da allora la leggenda, ma anche la polemica, sul suo nome, non ha smesso di infuriare. Purtroppo, come spesso accade nelle vicende umane, più su questioni effimere, che non sostanziali. In primo luogo, la tormentata storia d’amore con Hannah Arendt e la sfortunata adesione al nazismo del 1933.
Questo perché il pettegolezzo e la politica possono essere liquidate in poco tempo. Ben altro impegno richiede l’ardua scalata teoretica alle vette della sua filosofia. Profondamente implicata con tutto lo sviluppo precedente del pensiero occidentale. Da questo punto di vista, il recente libro di Umberto Galimberti, “Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente” (2020, Feltrinelli), costituisce un buon appiglio per chi voglia tentare l’ascesa al pensiero del macigno-Heidegger.
L’interprete
Galimberti è molto noto in Italia, per molte buone ragioni e per qualche episodio non particolarmente edificante. Meritorio il suo impegno e i suoi numerosi libri su Heidegger e Jaspers – di cui il più degno di nota è “Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers” (Feltrinelli, 1975-1984) – la psichiatria fenomenologica, la psicoanalisi junghiana. Tra l’altro si deve a lui la traduzione italiana dell’opera capitale di Karl Jaspers, “Filosofia” (1932, Utet-Mursia), in tre volumi.
Professore alla prestigiosa Università Ca’ Foscari di Venezia – e qui entriamo nel lato oscuro del lavoro di Galimberti – egli si è fatto trovare con le mani ‘nel sacco’ ad appropriarsi del lavoro scientifico di altri colleghi, facendolo passare per proprio. Certo è possibile dire che, con ogni probabilità, maestri sommi dell’arte occidentale come Mozart e Stendhal facevano lo stesso.
Perfino i famosissimi Led Zeppelin, e il leggendario Jimmy Page, hanno faticato parecchio a dimostrare che la loro canzone ‘mito’, ossia “Stairway to Heaven”, appartiene alla farina del loro sacco e non a un furtarello degno di un ladro di polli. In ogni caso, appare indubbio, confrontando i suoi lavori, che l’interpretazione di Heidegger e Jaspers, nonché molto del resto, sia frutto del lavoro, e della fatica, di Galimberti stesso.
Che in gioventù ha frequentato direttamente Karl Jaspers e che Emanuele Severino ha voluto, sempre, mantenere sotto la sua ala protettiva. Chi scrive ha, poi, un debito di riconoscenza nei suoi confronti. Suo fu il primo libro di filosofia – “Idee: il catalogo è questo” (Feltrinelli) – che leggemmo alla fine del liceo e, superati i quarant’anni, resta intatta la fascinazione per alcuni grandi autori e alcuni grandi temi della cultura occidentale…
I misteriosi sentieri dell’Occidente
Non a caso, quest’ultimo lavoro di Galimberti su Heidegger è dedicato alla memoria di Emanuele Severino. L’ultimo maestro degli studi filosofici italiani, scomparso a novant’anni, nel gennaio del 2020. Heidegger, e da qui inizia la difficoltà di ogni discorso critico su di lui, ha avuto un peso enorme su tutto il pensiero filosofico del Novecento. Non solo, e la difficoltà aumenta in modo esponenziale, egli è l’ultimo anello di quell’aurea catena che, nella filosofia europea, inizia con Platone.
Sebbene la sua intenzione filosofica profonda sia stata proprio quella di oltrepassare quella metafisica a cui Platone stesso aveva dato avvio. Ma, che cos’è metafisica? si domanda Heidegger, al principio del suo itinerario speculativo. Forse il modo più semplice di spiegarlo, è quello di ricordare l’origine, l’etimologia della parola. Nell’edizione classica delle opere di Aristotele, la designazione metafisica indicava quei trattati che seguivano quelli di fisica.
Ma la parola prese un’accentazione fortemente filosofica, oltreché redazionale e bibliografica. La metafisica si occupa di quei temi che oltrepassano il piano fisico, legato alle scienze naturali. Il campo proprio della metafisica è, dunque, occupato dalla filosofia e dalla religione. Particolarmente per quanto concerne la riflessione sulle idee e il pensiero di Dio.
È possibile designare il pensiero di Heidegger come uno sfiancante corpo a corpo, dalla durata cinquantennale, con la tradizione metafisica dell’Occidente.
La porta d’accesso
Al principio del suo libro, Galimberti afferma di essersi proposto di scrivere una “guida” complessiva al pensiero di Heidegger. Ossia un libro accessibile anche a chi non conosce Heidegger e non lo ha mai letto. Negli studi filosofici italiani, un altro libro ha ricoperto molto bene questa funzione. Si tratta del libro di Gianni Vattimo, “Introduzione a Heidegger” (Laterza).
Se si confrontano le parti dedicate ad “Essere e tempo”, la grande opera di Heidegger del 1927, nel libro di Galimberti e nel libro di Vattimo, si potrà notare una cosa. Vattimo dedica a quella grande opera molte pagine, mentre Galimberti piuttosto poche. “Essere e tempo” è tra i libri fondamentali del pensiero occidentale negli ultimi due secoli.
Supera le cinquecento pagine nella traduzione italiana (quella di P. Chiodi, rivista da F. Volpi) e le quattrocento nell’edizione tedesca originale. È un libro mosso, profondo, tempestoso, pieno di segreti, degno di un maestro assoluto quale Heidegger era. Da questo punto di vista, il lavoro di Galimberti non aiuta il principiante.
Il nuovo inizio
Fatta questa precisazione, del libro di Galimberti non si può che parlare in modo positivo. La lotta ingaggiatada Heidegger contro venticinque secoli di tradizione metafisica occidentale, è molto ben descritta ed analizzata, così come le controversie critiche più recenti. In modo particolare quella relativa ai “Quaderni neri” e all’antisemitismo di Heidegger.
Recuperare la concezione arcaica e presocratica dell’essere, tema su cui sarà seguito da Giorgio Colli ed Emanuele Severino, in linea con le intenzioni di Hölderlin e Nietzsche (le vere e proprie guide speculative del secondo Heidegger), che, prima di lui, si erano mossi alla stessa maniera.
Qui risiede la ragione del grande fascino filosofico sprigionato dal pensiero di Heidegger. Poiché tecnica e capitalismo hanno sottratto, all’uomo moderno e contemporaneo, esattamente questo. La possibilità di vivere in armonia con le forze naturali e con gli dèi. La capacità di godere di ciò che è massimamente semplice. La voglia di ascoltare le grandi parole della Sapienza, rese pubbliche da uomini come Eraclito, Parmenide ed Empedocle.
È vero che non è possibile recuperare le condizioni di vita e di pensiero del VI secolo a. C. in Grecia, trascurando tutto ciò che c’è stato nel frattempo. Ma qualcosa possiamo ancora imparare da quel mondo e Heidegger ne è la migliore dimostrazione. Qualcosa non solo di filologicamente corretto, ma di filosoficamente vivo, che sia in grado di scalzare il dominio della tecnica che si è imposto sull’intero pianeta.
E con quanta forza questo dominio è cresciuto negli ultimi cinquant’anni, fa giustamente notare Galimberti, rispetto a quando Heidegger era ancora vivo! Da una parte, l’essere, il senso greco della verità, designato dalla parola greca ‘Alétheia’. Dall’altra, il dominio della tecnica, ciò che Heidegger chiamava l’impianto.
In una tarda lettera del 1966 ad Hannah Arendt, egli scrisse: “nel frattempo tre soggiorni in Grecia compiuti con Elfride – in parte in crociera, in parte a Egina – mi hanno manifestato una cosa, ancora non abbastanza pensata, che cioè l’A-Letheia non è affatto una semplice parola, e neppure l’oggetto di una riflessione etimologica, ma piuttosto la potenza ancora dominante della presenza di tutte le essenze e le cose.
E nessun im-pianto può occultarla”.Con molta appropriatezza, pochi anni dopo, nel saggio del 1969 dal titolo “Martin Heidegger ha ottant’anni”, Hannah Arendt affermò che “la tempesta che soffia impetuosa nel pensiero di Heidegger … non proviene da questo secolo”.