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Mascherine: perché ne importiamo di scadenti e non distribuiamo quelle italiane?

La lente su un decreto del 17 marzo

Come mai il nostro paese ha avuto e continua ad avere enormi difficoltà nel ricevere e distribuire le ormai vitali mascherine anti covid-19, anche per il personale sanitario? Lo spiega con la sua proverbiale precisione e lucidità Milena Gabanelli, nel suo “datroom” del “Corriere della Sera”. 

In sostanza, “chi in Italia le produce, non ha poi il via libera per distribuirle”, spiega la giornalista. Un decreto del 17 marzo prevede infatti che le aziende estere che inviano mascherine nel nostro paese siano soggette soltanto al controllo del loro destinatario, ovvero i controlli possono bloccare la loro entrata in Italia solo quando non c’è un valido punto di arrivo, chi le ha “ordinate”.

Per quanto riguarda la loro conformità, qualità e marchio Ce, le dogane non hanno la facoltà di fare nulla, infatti sappiamo che sono arrivate mascherine spazzatura, davvero imbarazzanti, che si rompono appena indossate e non proteggono da nulla. La maggior parte di esse arrivano da Cina, India, Sri Lanka. 

Lo stesso decreto invita le aziende italiane a riconvertire la loro fabbricazione in mascherine. I dispositivi che però loro devono presentare devono avere criteri relativi al massimo del filtraggio, secondo norme del minor impatto ambientale. La maggior parte delle aziende hanno rinunciato: su 600 prototipi, solo 10 erano conformi e con reale capacità filtrante. 

Nel frattempo però le aziende che avevano già iniziato a produrre attendono di sapere se le loro mascherine saranno convalidate, ma potrebbero aver riconvertito la loro azienda, investendo denaro, con rischi altissimi. Chi le rimetterà in piedi se qualcosa dovesse andare storto al momento della verifica dei loro prodotti?

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