Notre-Dame de Paris, Victor Hugo
Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi
Notre-Dame de Paris è la riflessione sull’uomo armato di volontà contro il destino, dentro la tragedia e la violenza della Storia, è la storia dentro la Storia, di uno dei più grandi poeti romantici, Victor Hugo.
Nel 1830, Hugo appena ventottenne, scrive il suo capolavoro inventando quei personaggi irresistibili, carichi di senso, più umani degli uomini, a tutti familiari in un modo o in un altro, che sono appartenuti all’infanzia di migliaia e milioni di persone di ieri, quando l’industria culturale non aveva ancora invaso disneyanamente e televisivamente il nostro spirito libero, sognante e creativo.
La maestosa cattedrale gotica che dà il titolo al romanzo è l’opera d’arte collettiva per eccellenza, è l’emblema dei parigini, in cui si incontrano religione, arte e società. Dall’alto delle torri della cattedrale che svettano verso il cielo, Hugo domina la moltitudine delle strade di Parigi e dipinge con colori fumosi ma intensi la sua città che più al mondo ama, sprofondata nel clima oscuro del Medioevo. Ne descrive i contrasti e la bellezza sofferente di un’architettura che la modernità pian piano si sta portando via.
Notre-Dame è il centro dell’intera scena. Apre le sue porte al poeta che si aggira tra le ogive, le arcate, i doccioni, i mostruosi gargoyles, la buia navata, le torri e le campane; ascolta i canti sommessi e violenti e i sussurri dei vespri latini. Scopre nell’oscuro recesso di una delle torri la parola “fatalità” graffita in maiuscole greche su un muro, e su quella parola scrive questo libro, per resuscitare un passato lontanissimo.
Dentro queste mura i personaggi sembrano lasciare una parte di sé, provano i sentimenti più violenti, amore, gelosia, ferocia, possiedono le chiavi per distruggere il prossimo o per salvarlo, lottano contro se stessi e contro il mondo, si imbrogliano, si struggono, si disperano fino a diventare folli.
Seppure Esmeralda ha fatto innamorare la posterità, Hugo dà il meglio di se stesso nel disegnare la figura di Quasimodo, il mostruoso e compassionevole gobbo, il grottesco campanaro della cattedrale, costretto a vivere a causa del suo brutto aspetto esteriore in una torre ove guarda il mondo dall’alto. E’ la vittima più vittima di tutte poiché mai, dice Hugo, egli ha potuto godere di un abbraccio materno, fraterno, amoroso, e per un essere umano è questa la condanna più condanna di tutte e la miseria più miseria di tutte. Egli un giorno vede Esmeralda danzare sul Sagrato della chiesa e se ne innamora perdutamente.
Esmeralda è la pura espressione di aspirata libertà, è una giovane bella zingara dalla grande sensualità e innocenza che con la sua comunità abita la coloratissima Corte dei Miracoli dove canta, danza, legge la mano, fa i sortilegi. E’ sempre in compagnia della sua capretta, il suo “diabolico” doppio di istinto e natura.
Le autorevoli mura di Notre-Dame iniziano a tremare come fossero sostenute da quel fragile equilibrio su cui è retto un edificio fatto di carte da gioco incastrate tra loro.
A discapito di Quasimodo, Esmeralda è innamorata di Febo, un affascinante capitano delle guardie del Re, di scarsa morale, il quale nonostante sia impegnato con Fiordaliso, una giovane borghese, subisce il fascino della gitana. Lo stesso fascino alla quale non resiste neanche Frollo, l’arcidiacono della cattedrale, che salvò Quasimodo quando era stato abbandonato dai suoi genitori, e che nasconde gelosia, passione e perversione per Esmeralda. La gelosia si impossessa di lui a tal punto che pugnalerà Febo alle spalle. A scontare la pena, però, è Esmeralda che viene prontamente arrestata e quindi accusata di aver agito contro la vita di una delle guardie del Re e di aver praticato atti di stregoneria.
Il bene non sempre ha la meglio e l’uomo si dimostra nella sua identità più autentica e nella luce della sua più abissale, inarrestabile perversione.
Frollo mette in atto un piano: propone la libertà alla gitana in cambio del suo corpo. Lei rifiuta ed è consapevole del fatto che sia lui l’assassino. Il destino poi non è dalla sua parte. Quasimodo libera Esmeralda, nascondendola nella sua torre, ma in agguato c’è sempre l’imprevisto.
Giunge Clopin, un amico della gitana che fraintendendo le intenzioni del gobbo, vuole liberare Esmeralda da Quasimodo. Crea una rivolta diretta verso la cattedrale. Clopin viene ucciso da Febo, attivatosi per la difesa della cattedrale. Quasimodo è convinto che Febo voglia liberare la bella Esmeralda e quindi la fa consegnare alle guardie chiedendo l'aiuto dell'arcidiacono Frollo. Ma il gobbo ha calcolato e interpretato tutto male poichè accade qualcosa di inaspettato, Esmeralda viene condannata e muore impiccata.
Frollo assiste all'esecuzione da una delle torri della cattedrale provando un piacere sadico. Quasimodo, in preda alla disperazione e alla rabbia, riconosce la risata sadica del colpevole Frollo e lo scaraventa giù dalla cattedrale, uccidendolo.
Il cadavere di Esmeralda viene portato in una sorta di cimitero nelle catacombe aperte e Quasimodo, provando ancora un immenso amore, quell’emozione a lui da tutti negata, si addormenta vicino a lei e vi rimane senza muoversi, finché non muore anche lui, restando insieme nell'aldilà.
«Trovarono tra tutte quelle orribili carcasse due scheletri, uno dei quali abbracciava singolarmente l'altro. Uno di quegli scheletri, che era quello di una donna, era ancora coperto di qualche lembo di una veste di una stoffa che era stata bianca, ed era visibile attorno al suo collo una collana di adrézarach con un sacchettino di seta, ornato da perline verdi, che era aperto e vuoto. Quegli oggetti erano di così poco valore che di certo il boia non li aveva voluti. L'altro, abbracciava stretto questo, era lo scheletro di un uomo. Notarono che aveva la colonna vertebrale deviata, la testa incassata tra le scapole e una gamba più corta dell'altra. D'altronde non aveva alcuna vertebra cervicale rotta ed era evidente che non fosse stato impiccato. L'uomo al quale era appartenuto era quindi giunto lì, e lì era morto. Quando fecero per staccarlo dallo scheletro che abbracciava, cadde in polvere».
Un capolavoro immenso come la cattedrale.