Novecento, Alessandro Baricco
Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi
Novecento è un monologo teatrale che Baricco scrive per l’interpretazione di Eugenio Allegri e la regia di Gabriele Vacis, i quali ne fanno uno spettacolo nel 1994 che debutta al festival di Asti.
Probabilmente quando Danny Boodman T.D. Lemon Novecento non era ancora il protagonista di questa storia, ma solo una voce, è andato a sussurrare per la prima volta all’orecchio di Baricco: “Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”. Ecco allora carta e penna, il fischio della sirena che preannuncia l’ultima chiamata, la salita a bordo e via…
Era un numero, adesso è un nome: Novecento, come l’anno del suo ritrovamento all’interno di una cassa di limoni. E’ un ragazzo nato e cresciuto sul Virginian: una nave, una città galleggiante, che negli anni tra le due guerre solca i mari tra l’Europa e l’America, si porta addosso speranza e malinconia aiutando miliardari ed emigranti ad iniziare una nuova vita.
E’ il più grande “solleticatore d’avorio”, ovvero il più grande pianista che abbia mai suonato sull’Oceano, che già all’età di otto anni dà prova di saper suonare melodie che solo lui sa cogliere e che esprimono tutte le emozioni dell’animo umano, commovendo la piccola folla che si è radunata intorno al pianoforte.
Suona perché l’Oceano è grande, e fa paura, perché la gente non senta passare il tempo e possa dimenticarsi dov’è e con chi è.
Varie leggende sono legate a Novecento, come quella del senatore americano Wilson che avrebbe volentieri consumato la sua vita in terza classe, ad ascoltare la musica del mondo, di “quello che suona solo se ha l’Oceano sotto il culo”, di quello che senza patria, data di nascita né famiglia, non ha fatto nient’altro che viaggiare per trent’ anni senza mai toccare terra; di quello che suona i tasti bianchi e neri della sua vita incastrata tra una prua e una poppa, incantando, incastonando, cesellando i suoi giorni nelle note dedicate ad una donna, ad un amico, ad un figlio mai avuto, ad una esistenza mai scelta, ma capitata duemila passeggeri alla volta.
“Il mondo, magari, non l’aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima. In questo era un genio, niente da dire. Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente” .
Il mare per lui è la vita eppure lo allontana dalla vita. E’ giusto sia così? Quante volte provando il sentimento del sublime, il puro sublime kantiano, ossia qualcosa che attrae e allo stesso tempo fa paura, qualcosa di bello diviene al contempo inspiegabilmente irraggiungibile e terribile. Novecento è un uomo che non vuole scendere a compromesso con la realtà, perché gli fa paura, e decide di rimanere ancorato ai suoi sogni, illusioni, speranze. Un uomo troppo piccolo per un mondo come quello fuori dal Virginian che è senza confini, un’infinita miriade di paesaggi e persone, dove gli animi lucenti non sarebbero che piccole luci invisibili. Un uomo troppo grande, tanto da scegliere di rimanere se stesso fino alla fine.
"Il piano è composto da ottantotto tasti, su questi tasti posso esprimere l'infinito che è dentro di me. Il mondo là fuori è composto da miliardi, infiniti tasti, su quelli suona Dio".
La lettura diviene sinfonia, e raggiunge il suo potente apice, inaspettato e commovente, nel finale. Una sinfonia suonata al pianoforte che rammenta che i tasti iniziano e finiscono, non sono infiniti loro; Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare…
In fondo non l’ha detto nessuno che il pianoforte di Dio ha tasti infiniti, magari anche il suo ne ha ottantotto.