Ossa sparse sul prato: la storia di Pina, un omicidio senza colpevole
Pina Morelli, sparisce da casa e non se ne sa più nulla, finché per caso dei bambini giocando scoprono parte dei resti di uno scheletro
A Roma una ragazza di periferia di 27 anni, Pina Morelli, sparisce da casa e non se ne sa più nulla, finché per caso dei bambini giocando scoprono parte dei resti di uno scheletro. Non s’è mai saputo come sia morta e chi la possa aver uccisa o perché.
Ossa sparse sul prato
Roma, 16 settembre 1993. In un prato all’incrocio tra via Collatina e via Palmiro Togliatti, si trovano sparse su un prato le ossa di un piede, una mandibola, delle tibie, una parte del bacino. Appartengono a uno scheletro di donna. È il giallo della scomparsa di una tossicodipendente: Giuseppina Morelli, 27 anni, abitante a Tor Bella Monaca, in via Labruzzi 12,con la famiglia.
Omicidio? Overdose? Un maniaco o forse dei cani randagi hanno fatto scempio del corpo della ragazza?
Più tardi gli agenti ritrovano anche la carta d’identità della ragazza, in una borsa, non si sa se lasciata apposta o per caso. Non ci sono dubbi è lei e lo confermerà l’analisi del Medico Legale. Per pagarsi le dosi di eroina Pina era arrivata a prostituirsi. Il ritrovamento delle ossa gettò nella disperazione i genitori: Angelo il padre camionista, Angela Dandini la madre addetta alle pulizie e la sorella minore Miriam.
Le ipotesi che si fecero in seguito al macabro ritrovamento furono di un possibile omicidio dovuto forse a un maniaco o maturato nel mondo criminale di droga e prostituzione oppure si parlò di morte probabile per overdose. Possibile anche che il corpo sia rimasto sul prato e che ne sia stato fatto scempio da parte di cani randagi. Tutte ipotesi rimaste senza risposta. A parte forse quello dello scempio degli animali, perché i suoi vestiti vennero trovati non strappati o lacerati, come sarebbe dovuto accadere in quel caso. Non restava che un possibile omicidio.
Altri eventi oscurarono questo “giallo” ma quando venne ritrovato la mandibola il caso cominciò a montare sulla stampa
Il piede scarnificato, taglia 37, fu trovato da due bambini che giocavano su quel prato. Gli agenti accorsi sul posto faticarono a darsi una ragione di quei resti. Pensarono subito che magari il piede fosse scivolato via da un contenitore asettico di un ospedale e fosse il resto di un’amputazione, mentre lo trasportavano all’inceneritore.
Dalle indagini emerse che quel prato, a detta degli abitanti del luogo, era frequentato di notte da prostitute e che di tanto in tanto si assisteva a delle liti. Forse quel ritrovamento era il risultato di una di quelle liti con la conseguenza di una donna uccisa e fatta a pezzi per non essere identificata. Il ritrovamento venne relegato nei trafiletti di cronaca. Altri avvenimenti presero il sopravvento.
L’omicidio di due paracadutisti a Mogadiscio, in Somalia. La morte del mitico colonnello Bernacca, che forse molti non ricordano, era l’uomo delle previsioni del tempo in Rai, quando ancora non venivano svolte da ufficiali dell’aeronautica.
Erano i giorni in cui venne catturato Angelo Izzo, un esponente della della Giovane Italia, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, insieme a Gianni Guida e Andrea Ghira era uno dei massacratori del Circeo del 1975, che era evaso nel mese d’agosto.
Ma pochi giorni dopo, il 22 settembre, un operaio che lavorava in un cantiere nei pressi del prato, trovò una mandibola quasi intera. Fu allora che il giallo occupò le prime pagine dei giornali e i tg. Si stava prefigurando una sorta di macabro puzzle per ricomporre lo scheletro della sfortunata ragazza.
Gli agenti perlustrarono il prato alla ricerca di altri reperti
Dagli esami medico legali condotti su mandibola e piede venne confermata l’identità di Pina Morelli. La ragazza era schedata come tossicodipendente. Si decise di scandagliare bene il prato alla ricerca di altre ossa della giovane. Diversi agenti cominciarono a percorrere il terreno, occhi a terra, per scoprire la presenza di altre parti ossee.
Qualcosa emerse e sul tavolo di Medicina Legale dopo il piede e la mandibola, arrivarono la mascella, alcune costole, due tibie, un pezzo del bacino e altre ossa, in tutto una ventina di reperti che erano sparsi in un raggio di mezzo chilometro quadrato. Venne recuperata anche una borsetta con una siringa e la carta d’identità sbiadita di Pina.
Una ragazza di periferia che scivola nel tunnel della droga
Da qui la conferma che arriva ai genitori, gettandoli nella disperazione e si comincia a ricostruire la vita della vittima con le interrogazioni dei familiari e dei conoscenti. Da bambina era una brava allieva, spesso spaventata dal buio, disse la madre. Era cresciuta nella periferia, in un palazzo all’ultimo piano, con vista sul raccordo anulare.
Quattro anni prima della morte era diventata tossicomane, una condizione che riguarda ancora gran parte dei giovani, delle periferie e non. Faceva la commessa in un negozio di abbigliamento a largo Preneste. Si era innamorato di Marco, anche lui eroinomane e spacciatore. Al momento della scomparsa di Pina, il 25 luglio, Marco era in carcere e quindi si stabilisce che non avesse a che fare con l’eventuale omicidio.
Questi giovani vivono per anni ai margini della società. Le loro storie si somigliano tutte. Una vita senza slanci o soddisfazioni. Un tran tran che li getta sempre più giù in un vortice di negatività, da cui pochi riescono a venir fuori. Si comincia a non andare più d’accordo coi genitori, con il lasciarsi andare, non trovare un’occupazione.
Il lavoro, quando c’è, non dà prospettive di crescita e di affermazione individuale. Gli interessi si riducono ai minimi termini. Poi resta solo la droga. La ricerca spasmodica dei soldi per comprare le dosi. Le minacce del pusher se non si pagano le dosi. Poi la prostituzione per procacciarsi le poche lire, ma tante per chi non ne ha, per comprare l’eroina.
La lite con le altre prostitute “professioniste”
Il capo della Squadra Mobile di allora Rodolfo Ronconi scoprì che la sera prima della morte Pina era stata picchiata da altre prostitute. Le ragioni si possono immaginare. Pina non era una “professionista”. Occupava spazi di marciapiede togliendoli alle altre e il fatto che fosse tossicodipendente peggiorava le cose, era disponibile per qualsiasi cifra e questo rovinava il mercato delle altre prostitute.
Queste le tristi realtà che si debbono prendere in considerazione in questi casi. Purtroppo sono realtà schifose, orribili, disumane. Quello di Pina non è l’unico caso del genere. La sua eccezionalità sta nella fine che ha fatto il suo corpo, una volta morta, ma per il resto la condizione di una giovane tossica in queste periferie è sempre uguale, se non c’è chi dia una mano a uscirne.
Si torna ad analizzare i suoi resti per trovare delle tracce che portino luce su questa morte. Le ossa sono intatte, non si trovano segni di morsicature, né di strappi o lacerazioni sulla giacca arancione e sul top beige. Ma perché se li è tolti? O l’hanno spogliata dopo averla ammazzata? Si torna a parlare di un maniaco e poi come l’avrebbero uccisa? Con quale arma?
L’amicizia col professore della Sapienza
Nel corso delle indagini appare anche la figura di un professore universitario, Alberto Capalbi, docente di elettrochimica alla Sapienza, che negli ultimi tre anni s’era preso cura della ragazza, tentando di salvarla. L’aveva conosciuta a un semaforo e dopo averle dato un passaggio in auto. Le indagini esclusero una sua responsabilità nel fatto di sangue. “Quella ragazza era un angelo ferito – raccontò il professore universitario – e io non ero il suo amante, ma una persona che le voleva bene. Mia moglie e le mie figlie sapevano che volevo aiutarla. Pina era sensibile, delicata. Faceva i suoi sforzi per uscire dalla tossicodipendenza, tante volte aveva provato col metadone, ma poi ci ricascava. E io lì a spronarla, a darle fiducia».
Il professore cerca di interessarla ad altro, le dà fiducia, cerca di stimolare il senso vitale che ognuno di noi ha nascosto da qualche parte. Le sue frasi vengono raccolte da Fabrizio Peronaci, un cronista del Corriere della Sera, appassionato di questi casi irrisolti, chiamati Cold Case: “Spesso facevamo colazione al bar dell’università, poi io andavo a lezione e lei mi aspettava in macchina. Fumava tanto, ma era meglio che drogarsi…” Le regalò anche una macchina da scrivere, sapendo che era diplomata stenodattilografa, per indurla a raccontare la sua storia, i suoi pensieri, perché spesso scrivere di sé aiuta a razionalizzare, a vedere le cose sotto un’altra luce.
Tutto inutile. La china era ormai una discesa tremenda verso la fine. E una notte di luglio Pina andò incontro al suo destino da sola, come siamo sempre tutti noi, quando la tragedia si impossessa della nostra mente.