Pablo Picasso, la sfida del sapiente
Pablo Picasso attraversò il ventesimo secolo come una meteora e ne divenne una colonna, un riferimento imprescindibile
Tumultuoso e superbo, Pablo Picasso sembra osservarci di traverso dagli angoli dei suoi quadri. Come Heidegger e Adorno per la filosofia, come Rilke e Montale per la poesia, come Kafka e Joyce per la narrativa, egli attraversò il ventesimo secolo come una meteora.
Ma ne divenne, al tempo stesso, una colonna, un riferimento imprescindibile, noto ai bambini e agli adolescenti. Così come, al tempo loro, furono Fidia e Platone, Michelangelo e Shakespeare, Van Gogh e Nietzsche (che pure guadagnarono fama universale dopo la loro morte).
In ognuno di questi grandi personaggi, la sfida del sapiente è in agguato, dietro al carattere universale della loro opera.
Un’aria di famiglia
Molto spesso, i libri di grande efficacia su questi autori decisivi, sono quelli dove si respira un’aria di famiglia – e, per la filosofia valga, sopra tutti gli altri, il libro che Heidegger ha dedicato a Nietzsche, nel 1961. Per quanto concerne Picasso, svetta il libro di Roland Penrose, del 1958, “Picasso. L’uomo e l’artista” (ed. it. PGreco, introduzione di G. C. Argan, con un saggio di F. R. Fratini).
Penrose fu uno dei massimi esponenti del Surrealismo inglese, nonché amico personale del grande artista spagnolo. Poiché i massimi tra i nostri pittori, pensatori, scrittori, sono pieni di segreti e hanno bisogno di un buon segugio che sappia scovarli.
Ne siano testimonianza i ritratti di fotografici di Picasso: ogni volta egli sembra guardare l’obiettivo fotografico, con l’espressione di chi pensa: ‘vi ho gabbato anche stavolta’.
Così un giovincello spagnolo, tanto portato per le arti figurative da trovarsi più a suo agio con queste, che non con l’alfabeto, scopre dentro di sé una forza dirompente.
Tale che lo porterà a diventare il massimo esponente dell’arte del nuovo secolo. Ogni passo artistico di Picasso è una sfida alle forme artistiche, così come si erano canonizzate in due millenni e mezzo di sviluppo storico-artistico europeo.
Ma la sfida di Picasso va ancora oltre. Non è soltanto un problema, per quanto immenso, di tradizione e linguaggio artistico. C’è in ballo qualcosa di più: il rapporto e l’interpretazione della realtà. Schopenhauer aveva parlato di rappresentazione. Heidegger avrebbe parlato della necessità di oltrepassare la metafisica.
Pablo Picasso, articolare la complessità
Così Picasso lanciò per il mondo il cubismo, insieme al suo sodale Georges Braque. Sconvolgendo non solo i benpensanti dell’epoca, ma ciascuno di noi, quando, per la prima volta, siamo stati messi di fronte all’idea che la realtà è fatta di una serie infinita di elementi frammentari e di piani sfalsati.
Non necessariamente in comunicazione uno con l’altro. Per lui che fu guida di tanti, prima degli amici, Apollinaire, Max Jacob, Cocteau, Gertrude Stein, Breton, Eluard, Bataille, lo stesso Penrose.
Poi delle avanguardie. Infine, del corso stesso dell’arte occidentale, si trattava anche di una questione, per così dire, di tensione dello sguardo, della capacità, anche fisica, di reggere alla molteplice, a volte terribile, visione del vero.
Per noi che riceviamo il suo messaggio, si tratta di saper accettare la sua visione della complessità. Ciò che stupisce, analogamente a Goethe, è che in questa radicale operazione di scoperta del vero, egli mantenne una vigorosa e straordinaria salute, sia fisica che mentale.
Non è possibile dire lo stesso di Hölderlin, Nietzsche, Van Gogh e altri. A proposito di alcuni dei quali, Karl Jaspers parlò di genio e follia. Se in Picasso ci fu della follia, e certamente ci fu, essa veniva costantemente vinta e ricomposta nell’esigenza della forma, alla quale tutto era sacrificato.
L’ultimo classico
Per questo la tesi di Argan, nell’introduzione all’opera di Penrose, secondo cui Picasso sarebbe l’ultimo classico contemporaneo, appare affascinante. Nelle epoche classiche si davano due elementi fondamentali: una visione unitaria del mondo e un grande stile in grado di esprimerla.
Seppure, come dimostrò il giovane Nietzsche nella “Nascita della tragedia” (1872), la perfetta e luminosa superficie apollinea fosse costantemente insidiata dalle forme dell’irrazionalità proprie del dionisiaco.
La vocazione unitaria dell’arte di Picasso si articola in maniera differente. Nella disgregazione e frammentazione della cultura contemporanea, egli, con pari sicurezza, riesce ad attraversare tutti gli stili.
Ma ciò che rende grande la sua arte è il suo carattere enigmatico. Come ha ben spiegato Giorgio Colli, da ultimo nel I volume della “Sapienza greca” (Adelphi), l’enigma è uno dei centri speculativi della vita culturale ellenica. Di esso – per l’incapacità di rispondere ad un indovinello postogli da dei ragazzi – morì Omero, come ci ricorda un frammento dello stesso Eraclito (il 56 dell’edizione Diels-Kranz).
Nell’epoca della “riproducibilità tecnica” dell’arte, secondo una nota tesi di Walter Benjamin, dell’industria culturale, di Facebook e dei social network, la pittura e la scultura di Picasso mantengono intatto il loro fascino imprendibile e misterioso. Lo stesso che ci proviene dalla Natura.