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Papa Francesco e l’ultimo gesto verso i detenuti: donati 200mila euro dal suo conto personale

Il racconto accorato del Mons. Ambarus sull’ultima uscita del Papa a Regina Coeli: “Non poteva più camminare, ma non ha voluto rinunciare”

Papa Francesco in visita al carcere di Regina Coeli nel giorno del Giovedì Santo

Papa Francesco in visita al carcere di Regina Coeli nel giorno del Giovedì Santo

Era stanco, molto più di quanto lasciasse trapelare in pubblico. Il respiro affaticato, il passo lento, ma la volontà ferma. Pochi giorni prima di morire, Papa Francesco ha chiesto di tornare a Regina Coeli, uno dei luoghi più simbolici della sua visione pastorale. Non era un gesto programmato per le telecamere. Era un’urgenza del cuore. Non aveva più forze, ma ha voluto esserci ancora una volta. Non per parlare, ma per guardare negli occhi chi vive dietro le sbarre e ricordare a tutti che lì dentro non ci sono ombre, ma persone.

Mons. Ambarus: “Mi ha detto: ‘Li prendo dal mio conto'”

Lo racconta, con una commozione che fatica a contenere, Monsignor Benoni Ambarus, vescovo delegato alla carità e alle carceri per la diocesi di Roma. “Non poteva più camminare, ma si è fatto portare. Non ha voluto rinunciare. Ha detto: ‘Devo andare dai miei figli’. Quel giorno, nessuno ha parlato di addii. Ma lo sapevamo tutti.”

Della visita, nessuna nota ufficiale. Solo un’eco sommessa che si è fatta largo tra le mura del carcere e poi, piano, è arrivata fuori. Ma accanto alla visita, c’è stato un gesto che racconta ancora di più. Francesco ha lasciato i suoi ultimi averi – 200 mila euro – proprio a loro, i detenuti. Non un fondo vaticano, ma il suo conto personale.

“Mi aveva detto che non c’erano più risorse disponibili, né dalla diocesi né dalla carità papale,” racconta Ambarus. “Poi mi ha chiamato e mi ha detto: ‘Li prendo dal mio conto. Qualcosa troverò’. Era fatto così.” Quel trasferimento è avvenuto in silenzio, come molte delle cose più vere. E ha avuto un solo destinatario: il mondo che il Papa ha sempre rifiutato di considerare ai margini.

Papa Francesco, lo stretto legame con i detenuti

Il rapporto di Francesco con il carcere non è stato episodico. È stato parte integrante della sua idea di Chiesa “in uscita”. Non c’era Giovedì Santo in cui non lavasse i piedi ai detenuti. Non c’era occasione in cui parlasse di dignità senza menzionare chi vive recluso. La Porta Santa aperta a Rebibbia nel 2015 – unico luogo al mondo oltre San Pietro a ricevere quell’onore – fu una dichiarazione inequivocabile: per lui, la misericordia non aveva confini.

Ma se il suo slancio è stato costante, le risposte politiche sono rimaste deboli. Quando Francesco propose uno sconto simbolico di pena – un mese, due – come segno di riconciliazione nell’Anno Santo, non arrivò nulla. Né decreti, né aperture, né segnali concreti. “Il mio bilancio è negativo,” ammette oggi Ambarus. “C’era spazio per un gesto, ma non è arrivato. E i detenuti lo hanno sentito.”

Non è solo una questione di mancata clemenza. È una distanza che continua a pesare. “Un carcerato mi ha detto che nessuno era mai venuto a trovarlo. Nessuno. Camminano scalzi perché non hanno scarpe. Lo Stato dà il vitto, ma non il resto. E fuori, c’è solo il buio dell’oblio.”

I detenuti: “Non lo dimenticheremo”

L’eredità di Francesco, però, non si esaurisce nei gesti straordinari. È nei piccoli semi piantati nel tempo. Dopo la Porta Santa, a Rebibbia è nato un laboratorio permanente. Due volte al mese, cinquanta volontari entrano in carcere per celebrare la Messa insieme ai detenuti. Non si tratta di riti vuoti. C’è un percorso da seguire prima di entrare: “Bisogna capire dove si va. Il carcere non è uno zoo. Le persone non si visitano, si incontrano,” spiega il vescovo.

Dopo ogni celebrazione, si apre un cerchio di parole. Si parla della vita che attende fuori, delle mani da rialzare, del futuro che non può essere cancellato da una sentenza. È lì che la Chiesa continua a vivere, con presenza concreta.

Francesco sapeva che serviva esserci. Non solo nel momento dell’arresto, non solo nella condanna. Ma anche, e forse soprattutto, nel dopo. Perché uscire dal carcere senza nessuno che ti aspetta, è come rientrarci da libero.

Il segno più silenzioso di questo legame è arrivato proprio in questi giorni. Alcuni detenuti hanno affidato a Monsignor Ambarus un fiore e una lettera. “Per favore, posali sulla sua tomba.” È un gesto semplice, ma densissimo. Non un omaggio ufficiale, ma una testimonianza privata. In quella lettera, non ci sono parole altisonanti. C’è solo gratitudine. E una promessa: “Noi non lo dimenticheremo”.