Paradosso sull’attore, Denis Diderot
Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi
Paradoxe sur le comédien, in lingua francese, è un trattato del filosofo Denis Diderot.
Negli anni compresi tra il 1770 ed il 1780, Diderot scrive quest’opera inserendosi all’interno di una disputa iniziata anni prima, che aveva coinvolto tutti gli enciclopedisti fondatori del progetto enciclopedico del 1751.
Diderot sfida il convenzionalismo artistico, morale e sociale del suo tempo, è amico di attori e attrici e appassionato dell’arte scenica, ma non è mai stato critico drammatico di professione, benché possedesse le doti ideali e geniali per chi dovrebbe giudicare in teatro. Ciò nonostante scrive questo trattato dedicato al teatro, poiché proprio le controversie sulla questione del teatro e del ruolo dell’attore, erano state la causa della frantumazione del progetto enciclopedico.
Il XIII secolo è un’epoca storica in cui la conoscenza è il tramite attraverso cui l’uomo s’impossessa della natura, della sua struttura e delle sue leggi. La natura è concepita come un’unità organica e dinamica, non solo composta di cose da descrivere ma costituita anche da processi. L’unico modo utilizzato per conoscere questi processi, dagli scienziati, i filosofi o chiunque volesse occuparsi di natura, è quello di assumere verso la natura un atteggiamento di distaccata contemplazione, in quanto dalla distanza si guadagna un senso complessivo e unitario delle cose, che invece sfugge se si è immersi in ciò che si analizza.
In qualche modo anche l’arte si appropria di questa prospettiva.
Da più parti viene denunciata questa corrente di pensiero. Rousseau fu il primo ad affermare che al contrario questo tipo di atteggiamento più che descrivere i processi oggettivi della creazione naturale, rende conto della frammentarietà del mondo: la distanza non guadagna in oggettività e comporta riflessione, l’uso della ragione che distacca il sentimento.
Da un lato della medaglia c’è l’Illuminismo puro che richiede distanza e l’intervento della ragione; dall’altro c’è un Illuminismo che in qualche misura anticipa il sentire del Romanticismo e che accanto alla ragione vuole rendere conto del sentimento.
Il teatro di quegli anni, investito da parte dell’Illuminismo di quella distanza necessaria per osservare, viene accusato di essere una forma di corruzione della conoscenza: quella distanza esige una riflessione e non dà immediatezza al sentimento.
Diderot attraverso quest’opera riconosce al teatro, in quanto forma d’arte, una funzione educativa e comunicativa e si fa sostenitore di una riforma ripensando la funzione dell’attore, della scenografia, della trama e della messa in scena in generale. Assegna all'attore lo statuto di creatore e non di imitatore, mettendolo al pari dell'autore teatrale, considerato l'unico vero creatore della storia rappresentata. L’attore bravo deve essere un automa, deve acquisire una studiata razionalità necessaria ad agire le trame con distacco, per collocare al centro della scena l'immaginazione anziché sé stesso. Ciò non esclude la sensibilità dall’azione.
“Il fatto è che essere sensibili è una cosa, e sentire è un’altra. L’una è questione di anima, l’altra di intelligenza. Possiamo sentire con forza, e non riuscire a esprimerlo; possiamo esprimerci bene quando siamo soli o in società, davanti al caminetto, quando leggiamo o recitiamo per pochi ascoltatori, senza con questo far nulla che vada bene a teatro; perché a teatro, con ciò che chiamiamo sensibilità, anima, passione, si potranno far bene una o due tirate, ma si mancherà tutto il resto; abbracciate tutta la complessità di un grande personaggio, dosarvi le luci e le ombre, la dolcezza e la debolezza, riuscire altrettanto bene nei punti pacati e in quelli agitati, essere variati nei dettagli, armoniosi e coerenti nell’insieme, e crearsi un sistema sostenuto di declamazione che arrivi fino al punto di salvare le stramberie del poeta: tutto questo richiede una mente lucida, una profondità critica, un gusto squisito, uno studio faticoso, una lunga esperienza”.
“E’ l’estrema sensibilità che fa gli attori mediocri; è la sensibilità mediocre che produce l’infinita schiera dei cattivi attori, ed è l’assoluta mancanza di sensibilità che prepara gli attori sublimi”.
Il paradosso si esprime dunque nell’identità dell’attore che deve immergersi nel mondo, lasciarsi graffiare dal mondo, e andare in scena con la capacità di sospendere il giudizio, trattenere l’insegnamento e mettere tra parentesi la propria sensibilità lacerata che altrimenti non gli permetterebbe di poter agire, raccontare e trasmettere al pubblico.
L’unica distanza che Diderot accetta in teatro è quella dell’attore da se stesso, egli lo ritiene addirittura superiore al poeta che ha scritto l’opera, proprio per la capacità di imitare la natura e le emozioni altrui senza lasciarsi dominare dalle proprie.
Il filosofo francese cala così il sipario sul suo saggio guardando negli occhi quei presunti non attori che tutti siamo: “Si dice che l’uomo è un grande attore? Con questo non s’intende che l’uomo è sensibile, ma che eccelle nel simulare anche se non sente nulla: ruolo ben più difficile di quello dell’attore perché quell’uomo deve non solo trovarsi il discorso ma anche svolgere due funzioni, quella del poeta e quella dell’interprete. Il poeta sulla scena può forse essere più abile del commediante nel mondo, ma credete davvero che sulla scena l’attore sia più profondo, più abile a fingere la gioia, la tristezza, la sensibilità, l’ammirazione, l’odio, la tenerezza, di un vecchio cortigiano?”