Partiti e non solo. L’Italia: una repubblica fondata sul “ci penseremo dopo”
Dagli eletti M5S che fanno le bizze ai tesorieri ladri e agli scandali bancari. Eccetera eccetera. Con un filo comune
Un dettaglio, all’apparenza. E infatti non ha sollevato nessuna reazione di rilievo a livello mediatico, né da parte dei giornali veri e propri, né su Internet.
Un dettaglio che era contenuto nell’articolo apparso ieri sul Fatto Quotidiano, riguardo alla visita di Beppe Grillo ai deputati e ai senatori M5S e, più in particolare, alla sua partecipazione all’assemblea degli eletti. Durante la quale ha parlato di molte cose e lo ha fatto, come gli accade sempre più spesso, in maniera quasi “random”: osservazioni eterogenee di cui è difficile, o impossibile, identificare la logica interna. La logica e la coerenza. La continuità con i proclami del passato. Con gli appelli fiammeggianti di un tempo.
Grillo, da tipico animale da palcoscenico che rimane uno showman anche nei momenti in cui si “presta” alla politica, preferisce puntare sul suo carisma personale. Sulla capacità di affascinare l’uditorio di turno, anziché convincerlo con argomentazioni rigorose.
Alle prese con le tante contraddizioni e turbolenze che attraversano il MoVimento, il cosiddetto/sedicente garante (a proposito: garante di cosa, esattamente?) tenta in tutti i modi di spegnere i malumori e di rimpiazzarli con un ritrovato entusiasmo.
Consapevole di dover gestire i molti attriti in corso, nel tentativo di far proseguire il governo e la legislatura, arriva quasi a giustificare i tre senatori che recentemente sono passati alla Lega, gratificandoli di un caritatevole “se ne sono andati perché si sentivano soli”.
Ma a un certo punto, poiché il suo carattere non è certo bonario, sbotta con una tirata d’orecchie collettiva: “Qualcuno si dimentica che siete qui come portavoce e non come parlamentari”.
A trucchetto, trucchetto e mezzo
Vero: questo si era detto e strombazzato a suo tempo.
Gli eletti come portavoce delle decisioni del MoVimento. Ovvero degli iscritti e dei sostenitori, in base a quell’idea di democrazia diretta e continua che in teoria avrebbe dovuto stabilire una connessione permanente tra la base e i suoi rappresentanti. Se non che, alla prova dei fatti, l’idea si è rivelata una mera suggestione. E le votazioni sulla piattaforma Rousseau, anche sorvolando su tutte le altre perplessità a cominciare dal numero piuttosto scarso dei partecipanti, sono rimaste relativamente rare.
E quindi, egregio Beppe, portavoce di chi?
Non essendoci che dei pronunciamenti occasionali, da parte del mitologico Popolo della Rete, la conclusione è obbligata: l’alternativa al fare di testa propria è allinearsi costantemente ai voleri delle gerarchie prefissate. E calate dall’alto. Di qua, e sotto i riflettori, il “capo politico” Luigi Di Maio. Di là, dietro le quinte ma sempre pronto a scendere in campo quando gli pare e piace, lo stesso Grillo.
Il termine rimane il medesimo: portavoce, appunto. Ma cambia significato. Perde quello prettamente democratico – che scaturisce dalla massa dei cittadini e risale a chi li dovrebbe rappresentare – per rivestirsi di un’accezione aziendalistica: le direttive partono dai veri decisori, che agiscono in modo analogo a un consiglio d’amministrazione, e arrivano agli executive, che li dovranno far valere nei rispettivi ambiti istituzionali.
Tuttavia, visto che siamo in Italia e la furbizia regna sovrana in ogni dove, alle astuzie di Grillo & C. si sono contrapposte le accortezze dei deputati e dei senatori: che da candidati avevano accettato senza batter ciglio la retorica dei portavoce, ma una volta eletti si sono comportati al pari di ogni altro parlamentare. Che rivendica il mandato come un’investitura personale e, perciò, si sente libero di schierarsi come gli pare.
Portavoce di chi l’ha votato. Ossia di nessuno che possa richiamarlo all’ordine , trattandosi di una massa indistinta.
Intanto si fa. E in seguito, semmai…
Il M5S non è certo l’unico e il solo, ad avvoltolarsi in questi pantani. Anzi, arriva buon ultimo a questo tipo di atteggiamenti. Che si potrebbero riassumere in un serafico, o cinico, “ci penseremo dopo”. Ovvero, la logica del fatto compiuto.
Prima si afferma una cosa, o la si avalla restandosene zitti e nascondendo il proprio disaccordo. Poi ci si comporta in tutt’altro modo. Quando però, ormai, si è acquisito ciò che si desiderava.
Il caso dei parlamentari riottosi, o addirittura dei “voltagabbana” che si trasferiscono da un partito all’altro, è di particolare evidenza, ma i casi analoghi non si contano. Vedi, ad esempio, gli scandali bancari. Da quello recentissimo della Popolare di Bari, in cui a detta dell’amministratore delegato Vincenzo De Bustis i conti delle filiali venivano truccati sistematicamente, a quelli precedenti, tra cui spicca per ampiezza e contraccolpi (e impudenza dei manager) il tracollo del Monte dei Paschi di Siena. La cui storia pluricentenaria, dopo la fondazione nel remotissimo 1472, è stata annichilita in un pugno di anni da decisioni palesemente sballate. E attualmente sotto processo.
Oppure, restando nell’ambito dei partiti e citando giusto un paio di nomi, le ruberie dei tesorieri alla Luigi Lusi della Margherita o Francesco Belsito della Lega.
Il tratto comune è appunto questo: si fa quello che si vuole, e che fa comodo, infischiandosene delle conseguenze.
Quando poi arriveranno le contestazioni, si darà inizio a una seconda fase. Se si tratterà di accuse giudiziarie, si combatterà in tribunale a suon di carte bollate e di lungaggini assortite, confidando nella prescrizione o in ogni altra scappatoia utile a diminuire la pena o a evitarla del tutto. Se invece il problema sarà solo “politico”, tanto di guadagnato.
Si rimoduleranno le panzane precedenti e si vedrà se gli elettori si bevono anche le versioni aggiornate.
Forse che sì, forse che no.
Gli incerti del “mestiere”.