Perché dovremmo leggere ”Svegliami a Mezzanotte” (Einaudi, 2019) di Fuani Marino
Fuani Marino racconta del suo tentativo di suicidio: si è buttata dal quarto piano di una palazzina ma non è morta
La dedica del libro non lascia scampo: ”A Lyrica e a quanti hanno attraversato la notte’’ e questo da subito già me l’ha fatta sentire ‘’amica’’ o, almeno, ‘’familiare’’. Fuani Marino scrive un memoir sincero, lucido, spietatamente analitico e non si concede illusioni, Svegliami a Mezzanotte, Einaudi editore 2019. Viviseziona la sua malattia, specula sul disagio psichico, nel senso della speculazione scientifico-filosofica. Il libro, a metà tra il saggio, pieno di rimandi e citazioni di matrice psicologica e psichiatrica (l’autrice ha compiuto studi universitari alla facoltà di Psicologia), e il diario emozionante della ‘’paziente’’, pone tante domande e affonda il coltello laddove spesso non si vuole e non si può vedere.
Partendo dal fatto reale e crudo: Fuani Marino si è buttata dal quarto piano di una palazzina a quattro mesi dal parto della sua bambina, Greta, è stata in ospedale quattro mesi tra interventi chirurgici e rianimazione, ha avuto una convalescenza lunghissima, l’autrice prova a tracciare la sua storia personale che l’ha portata a compiere quel gesto: le dinamiche, le linee e i segnali che, come scrive, solo a posteriori possono risultare ‘’profetici’’. Lo fa a ritroso dalla sua infanzia, attraversando l’adolescenza irrequieta, ma neanche troppo, chi non è mai stato un adolescente inquieto? Il matrimonio forse arrivato troppo presto, per compensazione viene da suggerire, la maternità e le responsabilità e la mistica attorno alla maternità stessa cui noi donne siamo da sempre sottoposte. Poi arriva il dramma, il lancio nel vuoto, un dolore ancestrale che si espande ‘’nell’eternità’: ‘’E poi sono caduta ma non sono morta’’.
Un po’ la si vorrebbe abbracciare e dirle che no, non è sola e talvolta viene persino voglia di schiaffeggiarla e suggerirle di fare attenzione, perché un’altra trappola della malattia è l’autocompiacimento, restare impantanati e diventare un tutt’uno con il proprio disagio psichico con il rischio di confortarsi paragonando il proprio dolore di vivere a quello di Sylvia Plath, David Foster Wallace, Cesare Pavese, Ernest Hemingway e tantissimi altri grandi scrittori afflitti dallo stesso male e morti suicidi.
‘’Ma cosa potete capire voi’’ scrive Fuani Marino rivolgendosi ai lettori e invece noi essere umani, sebbene non possiamo capire del tutto l’abisso in cui è sprofondata tanto da scegliere di buttarsi nel vuoto, capiamo il dolore che almeno una volta ci ha pervasi tutti, o quasi, da non poterlo in alcun modo verbalizzare come recita il titolo di quel bel libro ‘’Le parole per dirlo’’ di Marie Cardinal.
Insieme a Fuani Marino riviviamo le nostre frustrazioni, i rapporti conflittuali con i nostri genitori, spesso irrisolti, da cui a fatica riusciamo a liberarci, la mancata carriera brillante che sognavamo, gli attacchi di panico che abbiamo vissuto, l’angoscia indicibile, la paura della morte e quella sensazione di essere diversi da tutto e da tutti, la sensazione di essere estranei al mondo e ai suoi abitanti.
La malattia mentale, la depressione, le relative cure psicoterapeutiche, psichiatriche e farmacologiche sono ancora un tabù ma qualcosa sta cambiando. La maternità che con le sue responsabilità ha acuito il senso di disagio già presente in Fuani Marino è troppo spesso data come conseguenza scontata dell’essere donna e invece è una scelta come un’altra, così come il matrimonio, assurdo che ancora sia necessario ribadirlo nonostante già nel 1949 Simone De Beauvoir indagasse su tutto questo nel testo imprescindibile ‘’Il Secondo Sesso’’. Siamo ancora a dover giustificare il nostro non voler essere madri, la volontà di non voler essere mogli, ma anche sotto questo aspetto siamo dentro a una trasformazione sociale.
Un momento della narrazione che colpisce l’immaginario del lettore è sicuramente quello in cui la scrittrice vede in tv la sua compagna di liceo che fa il mezzobusto al tg nazionale, la scrittrice si immaginava in quel ruolo prima di ammalarsi, era una giornalista in erba, e questo impatto con la realtà positiva della ex compagna di scuola le sortisce una reazione che la fa agire. Chi di noi non ha sognato la realizzazione professionale e il successo, che non è un demone come tanti tendono a farci credere, ma il riconoscimento sociale che ce l’abbiamo fatta che valiamo qualcosa, che non tutto è andato perduto, lo stadio etico per dirla con Soren Kierkegaard?
Quando si soffre di depressione si pensa di essere unici, dunque di essere i soli a soffrire, perché il dolore è sempre esclusivo, oltraggioso, intollerabile, inutile e lancinante. Eppure riuscire a pensare di avere dei ‘’simili’’ può dare un piccolo conforto, pensare che altre persone abbiano avuto la morte dentro può aiutarci a uscire dall’isolamento che la sofferenza mentale porta con sé. Così, leggendo Fuani Marino sappiamo che l’indicibile a volte è anche dicibile e persino si può scriverne, si può sopravvivere al proprio dolore. Bisognerebbe rivendicare non dico un orgoglio ad essere depressi, ma almeno uno stato di fragilità e di profondità che può condurre alla malattia mentale, come scrive l’autrice:
‘’Dovremmo cominciare a fare coming out, senza curarci troppo delle reazioni altrui. […] Compresi che questo libro non era solo il racconto di una cosa terribile che mi era successa, ma anche un gesto politico, almeno nelle intenzioni. C’entrava qualcosa che aveva a che fare col concetto di pride, lo stesso sentimento di appartenenza e rivendicazione che fa scendere in piazza la comunità LGBT per dire, finalmente, dopo secoli di vergogna e silenzio: IO SONO COSì’’.
Fuani Marino scopre nel corso della sua depressione e degli incontri con psicologi e psichiatri, alcuni poco fortunati, altri potremmo definirli quasi salvifici con i medici che la seguiranno dal tragico gesto a oggi, di essere affetta da disturbo bipolare. Un disturbo mentale assai diffuso e di cui solo da alcuni anni si parla in Italia.
‘’La bellezza non salverà il mondo, né ce lo renderà meno ostile. E tutto questo dolore non sarà utile, non servirà proprio a niente se non a farci soffrire’’
Il disagio psichico non ha uno scontato happy end, non è come in un musical, come diceva amaramente Bjork in Dancer in the dark, dove tutto si sistema e va a posto, Fuani Marino ce lo racconta con un coraggio, quello, sì, unico, con la paura addosso ogni giorno, ogni ora, di cadere: ‘’Anche adesso, in questo preciso istante, mentre scrivo, potrei crollare davanti ai vostri occhi. Sono andata avanti, sì, ma vivo sull’orlo del precipizio’’.
Forse però è la vita stessa a essere instabile, a portarci sovente a fare i conti con il nostro abisso. Viviamo tutti sull’orlo del precipizio e ci aggrappiamo a piccole isole di felicità, mia madre dice che le sue sono i rossetti per le labbra e mi piace come immagine, e mai abbastanza abbracci per sentirci meno soli, per sentirci accolti. E, allora, grazie, Fuani, ti chiamo così solo con il tuo nome proprio, perché ti sento un po’ amica mia, amica nostra, di tutte le anime perse, come il titolo di quel film di Dino Risi con un magistrale Vittorio Gassman, che perse poi non siamo se ci stringiamo un po’.