Perdersi è meraviglioso, David Lynch
Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi
La prima cosa che verrebbe da chiedere ai giornalisti che hanno avuto la ventura di incontrare il regista il cui nome completo è David Keith Lynch, e che in questo libro hanno raccolto le loro interviste è: «Com’è? Strambo?»
David Lynch è un uomo robusto, di media statura, con dei grandi occhi blu cielo e una folta capigliatura d’argenteo rocker. Chiunque lo incontri per la prima volta è colpito dal suo aspetto normale e curato. Di solito indossa calzini bianchi e porta la camicia abbottonata fino al collo. Per tutta la durata delle interviste ordina dell’acqua calda per il caffè solubile, mentre esala fil di fumo gentilmente consentiti dai servizi di sicurezza. Ha un lieve, svagato sorriso, ed è pacatamente attento a compiacerti.
Quel che già si sa è che uno dei massimi cineasti statunitensi degli ultimi decenni, vincitore di due Palme d’Oro a Cannes, due César e un Leone d’Oro alla carriera. Con film come Eraserhead, Inland Empire, The Elephant Man, Velluto blu, Twin Peaks e Mulholland Drive, ha esplorato il lato oscuro delle piccole città statunitensi e delle metropoli caotiche, come della mente umana.
In questa raccolta di ventiquattro interviste sul cinema, gli autori ripercorrono l’intera carriera del grande regista, dal 1977 fino a oggi. Un’eloquenza ricca di osservazioni mai scontate e sempre penetranti racconta anche le altre forme artistiche amate da Lynch, dalla pittura alla musica, aneddoti dal set e ricordi personali.
Richard A. Barnery, uno degli autori, dice che «…intervistarlo è in molti sensi come tentare di afferrare un serpente sinuoso, per quanto assai amichevole e loquace». Lynch ama conversare, scambiare battute e improvvisare discorsi filosofici. Ben altra cosa è per lui rivelare i significati dei suoi film, spesso dice più cose tacendo che parlando.
Il suo modo assolutamente rivoluzionario di percepire la realtà dietro la cinepresa non smette mai di provocare rappresentando cose che la gente non ha mai visto al cinema, allargando i confini di ciò che è accettabile e interessante da mostrare. Immagini surrealiste, sequenze di confine tra sogno e realtà, identità ambigue dal forte impatto emotivo, menti devastate, atmosfere misteriose, ambientazioni in torbida penombra, musiche ed effetti inquietanti: sono alcuni dei suoi elementi prediletti e più riconoscibili che hanno provocato la sensibilità di molti spettatori e critici, smuovendo dentro loro qualcosa di insopportabile. Queste scene assurde e visionarie, per molti semplicemente «brutte», riflettono una parte del mondo imperfetto in cui viviamo. Tutti hanno un inconscio su cui mettono un coperchio, e dentro c’è qualcosa che ribolle. La superficie delle cose è solo l’inizio della visione, perché ogni cosa ne contiene altre. Che sia un bene o un male, a Lynch piace scoperchiare l’inconscio collettivo e lasciare fuoriuscire quel materiale a volte vivo a volte morto, che c’è in ciascuno di noi. Ogni cosa è un mistero, l’oscurità è mistero, Lynch non sa cosa contenga ed è quello ad attirarlo.
Egli arriva al cinema dalla pittura e in un certo senso quella bruttezza la trova bellissima: la vede in termini di consistenze e colori, di insieme e immagine complessiva.
A vent'anni segue i corsi di Belle Arti a Philadelphia. Dipinge un giardino verde su una tela nera, che un colpo di vento fa vibrare: «Avrei voluto che l'immagine continuasse a muoversi su un'onda musicale». Da quel quadro, o da quella folata, è nato il suo primo film d'animazione Six Men Getting Sick.
«Non abbiate paura di fotografare “male” per creare la giusta atmosfera». L’atmosfera è importantissima perché ha a che fare con la sensazione tattile, gli odori e i luoghi del film. Per il regista creare a colori è infinitamente meno stimolante di creare in bianco e nero. Il bianco e nero ha la capacità di trasportare in un mondo diverso, passato o parallelo. Ha il potenziale di trasmettere idee che sarebbero irrealizzabili nel bagliore della fotografia a colori. A volte il colore rende tutto troppo realistico e puro e non trasporta altrettanto facilmente. L’immagine in bianco e nero non è così realistica da poterla guardare di sfuggita, «In bianco e nero si cominciano a vedere le cose per davvero (…) Una stanza con due o tre oggetti è già bellissima da vedere. A colori, è vuota».
Nonostante la sua formazione artistica, ritiene che la sua visione non sia influenzata da nessun artista in particolare, né cita influssi letterari o cinematografici. L’unico artista che sente «come mio fratello» è Franz Kafka. Le sue riflessioni sono influenzate più che altro dai luoghi che ha visitato e dove è vissuto, Philadelphia in particolare, e dalle persone che ha incontrato.
Un libro che offre un indimenticabile ritratto in presa diretta del regista più visionario e geniale di Hollywood e della storia del cinema, di un tale mago nel contagiarci con le sue percezioni maniacali, da poter saltare a piè pari lo stadio intermedio della spiegazione, sul sentiero della curiosità più profonda dove «Perdersi è meraviglioso».
Tim Hewitt, un altro degli autori, ha provato a rispondere alla domanda che a chiunque verrebbe da fargli: «Be’ si è strambo, ma non nella maniera che credereste».
Ai critici più polemici resta da chiedersi se Lynch inventi tutto quanto o se ci sono esempi di cose del genere nella vita reale. Perché scandalizzarsi tanto se poi si vedono in un film?