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“Populista!” è l’insulto standard per chi dà voce al malcontento

Non potendo accusare alcuni leader che vincono di truccare il verdetto delle urne, li si attacca in altro modo, chiamandoli populisti

Trump Tower, New York

Trump Tower, New York

L’attualità dice Wilders, in Olanda: il suo partito, nelle elezioni nazionali di mercoledì scorso per il rinnovo della Camera, si è piazzato al primo posto. Ottenendo il 23,5 per cento e lasciando molto indietro tutti i rivali.

L’attualità dice Milei, in Argentina: ha trionfato nelle presidenziali e ora è il nuovo capo dello stato. E allo stesso tempo del governo, visto che laggiù le due funzioni sono riunite in una stessa figura.

L’attualità, questa volta in proiezione futura, dice che negli USA Donald Trump gode ancora di un larghissimo seguito popolare, nonostante i gravi procedimenti giudiziari intentati contro di lui, ed è sempre più probabile che sarà proprio lui a rappresentare di nuovo i repubblicani, nella corsa di novembre 2024 per la Casa Bianca.

In realtà, come è naturale che sia, sono tre situazioni diverse e tutte da valutare, ma ad accomunarle sono le reazioni quasi scandalizzate del mainstream. Che preferiscono saltare alle conclusioni e seminare l’allarme. Ricorrendo immediatamente alla più tipica delle etichette-esorcismo: populisti!

Traduzione: personaggi, e partiti, che costituiscono un pericolo per la democrazia e che perciò vanno fermati con ogni mezzo. A cominciare dal discredito.

I voti di serie B, o anche peggio

Non potendoli accusare di truccare il verdetto delle urne, o di condizionarne gli esiti con la minaccia della repressione poliziesca o dell’intervento delle forze armate, li si attacca in altro modo. Ma con il medesimo obiettivo di farli apparire dei personaggi inattendibili e, appunto, pericolosi.

Degli imbonitori spregiudicati che fanno leva sul malcontento diffuso e che costruiscono le proprie fortune politiche su parole d’ordine tanto rozze quanto efficaci. Che in effetti sono in grado di portarli a dei successi cospicui ma che, paradossalmente, non bastano a renderli del tutto accettabili.

Votati in massa sì, pienamente legittimati no.

Come se si trattasse di un errore da neutralizzare. Da rimuovere nel più breve tempo possibile per poter tornare, senza ulteriori turbolenze, all’assetto abituale.

Quello in cui le “classi dirigenti” hanno ragione in quanto tali, al di là dei cattivi o dei pessimi risultati del loro dominio. E se i cittadini non lo capiscono, beh, allora è colpa loro.

Un pregiudizio che acceca

L’approccio preferito, tra i solerti sostenitori di questa visione unilaterale e sprezzante, è fermarsi alla modalità più semplice. Arroccandosi in un ostracismo totale e sommario.

Il bisogno di negare ciò che va contro le proprie preferenze, e i propri interessi, sfocia in una chiusura totale. Che in parte è fondata, a causa dello strapotere di cui godono queste oligarchie travestite da élite, ma che allo stesso tempo non lo è affatto, perché non presta la dovuta attenzione a delle dinamiche in via di espansione e tutt’altro che illusorie.

Il pregiudizio diventa un automatismo. Della serie: sono solo delle tempeste momentanee. Per quanto sgradevoli, e foriere di danni o quantomeno di rischi, sono destinate a passare. Imbrigliate dalle innumerevoli barriere dello status quo: i vincoli internazionali, gli assetti economici, le pressioni mediatiche, e ogni altro fattore di riaffermazione del modello dominante.

Il massimo a cui possono arrivare, in alternativa, è riconoscere che quel malcontento va avanti da ormai troppo tempo, per non avere delle motivazioni profonde.

“La prima cosa da fare – ha scritto Antonio Polito, nel suo editoriale di ieri sul Corriere della Sera – è smettere di illudersi che si tratti di un fenomeno transitorio, un fuoco di paglia acceso dalle contingenze economiche e sociali. (…) Se sono così duraturi, vuol dire che hanno toccato un punto infiammato nel cuore degli elettori. E questo punto è, prima di tutto, il rifiuto dei migranti”.

Tensioni vere. Che in futuro…

Potrebbe sembrare l’avvio di una ritrovata consapevolezza: un numero crescente di cittadini non condivide le linee guida della politica occidentale. E di quella europea in particolare. Europea, si intende, nel senso della UE. Nel senso dei suoi organismi di vertice che hanno lo scopo di orientare dall’alto le decisioni collettive, a cominciare dalla Commissione presieduta da Ursula von der Leyen.

Ben lungi dall’essere un malumore superficiale, questa mancata condivisione riguarda degli aspetti cruciali della società. Sui quali la parola decisiva, in una democrazia autentica, spetta appunto al popolo.

La “ritrovata consapevolezza”, però, è solo apparente. La posizione dell’establishment è di segno opposto: l’unico comportamento adeguato, da parte degli elettori, è attenersi alle convinzioni di chi la guida attualmente. Al posto della libertà di voto, il dovere di sottoscrivere ciò che sostanzialmente è stato già stabilito altrove. A chiacchiere ti dicono che sta scegliendo tu: in realtà ti chiedono di controfirmare. E si aspettano che tu lo faccia di buon grado. Se non addirittura con entusiasmo.

Quando ciò non succede, come capita sempre più spesso, invece di rimettere in discussione i propri piani si affidano ai “correttivi” dei sistemi parlamentari.

“Nel sistema olandese – sottolinea Polito – una minoranza non può diventare maggioranza senza sommarsi ad altre. Servirà così un governo di coalizione, difficile perché si dovranno mettere insieme tre, se non quattro partiti. Ci vorrà tempo, e intanto continua a governare Rutte, il premier della destra liberale il cui partito è il vero sconfitto nelle urne. La democrazia, insomma, ha i suoi freni d’emergenza. Ma non dappertutto. E non per sempre.”

Esatto: non dappertutto, non per sempre.

Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia