Presidenziali Usa, e se anche stavolta la realtà smentisse le narrazioni?
Come nel 2016, sondaggi e media incoronano il dem Biden mentre i voti veri già sembrano dire Trump. E, a completare il déjà-vu, rispuntano pure gli hacker russi…
A pochi giorni dalle Presidenziali Usa, previste per martedì 3 novembre, si ha una strana sensazione di déjà-vu. A partire dall’esito plebiscitario preconizzato dai sondaggi e propagandato dai media. Per i quali, proprio come quattro anni fa, potrebbe finire con un salutare bagno di realtà.
Il focus sulle Presidenziali Usa
«A che serve il nostro lavoro di giornalisti se poi la gente vota diversamente?» Così, come forse si ricorderà, la giornalista Giovanna Botteri sbottò nel 2016, all’indomani dell’affermazione a sorpresa del repubblicano Donald Trump.
Evitando di infierire a livello di deontologia professionale, l’aspetto interessante era la discrepanza tra la narrazione mediatica e l’umore del Paese reale. Quattro anni fa, com’è arcinoto, tutte le rilevazioni accreditavano unanimemente del successo la candidata dem Hillary Clinton. Che alla fine aveva ricevuto circa tre milioni di voti in più rispetto al tycoon, il quale però aveva comunque espugnato la Casa Bianca.
Scherzi del particolare sistema elettorale yankee, che si fonda sui singoli Stati federali un po’ come il Senato italiano viene eletto su base regionale. In pratica, ogni singolo Stato assegna, in proporzione al numero di abitanti, una quantità di “grandi elettori”, i quali vanno a comporre il “Collegio Elettorale”. È quest’ultimo a nominare il Presidente, perciò è qui che occorre avere la maggioranza (pari a 270 delegati). Per fare un riferimento pratico, nel 2016 The Donald trionfò con 304 grandi elettori contro 227.
Questo perché nelle Presidenziali Usa tutti i delegati di uno Stato vengono assegnati al vincitore, indipendentemente dal margine. È perciò possibile uno scenario in cui un candidato prevale in assoluto, magari perché ha conquistato alcuni grandi Stati con un largo vantaggio. Tuttavia, se il competitor la spunta in molti Stati poco popolosi, anche con uno scarto minimo, può conquistare il 1660 di Pennsylvania Avenue. Un po’ come accade nel tennis, dove è possibile perdere un incontro pur facendo più punti dell’avversario.
Come nel 2016
Non stupisce quindi che, proprio come la Clinton un quadriennio fa, l’ex Presidente Barack Obama abbia messo in guardia gli elettori contro l’idolatria delle rilevazioni. Le quali danno (di nuovo) in netto vantaggio il candidato dem Joe Biden, ignorando che la vittoria si gioca su pochi Stati. I cosiddetti battleground o swing States, gli Stati chiave.
Non è nemmeno l’unico dettaglio che fa quasi pensare che il tempo si sia fermato al 2016. Per esempio, a scanso di equivoci sono rispuntati pure gli hacker russi. Che ora sono preventivamente agitati come spauracchio, mentre allora funsero da risibile alibi per l’inattesa débâcle.
Se il partito dell’Asinello avesse perso meno tempo dietro a fantasmi e mulini a vento, e avesse fatto maggiore autocritica, ne avrebbe certamente tratto giovamento. Perché l’attuale Potus non ha vinto per fantomatiche interferenze esterne, ma perché ha intercettato il disagio di quella parte di elettorato insoddisfatta dell’amministrazione democratica. Soprattutto la classe media, alle cui preoccupazioni dal punto di vista economico e lavorativo Obama non aveva mai risposto in modo adeguato.
Si badi che Sleepy Joe sta proseguendo sulla stessa falsariga, com’è emerso prepotentemente, tra l’altro, nell’ultimo dibattito televisivo del 22 ottobre scorso. In cui l’ex vicepresidente si è dato da solo la zappa sui piedi, lasciandosi sfuggire un «no ai sussidi all’industria petrolifera» perché «inquina in modo significativo». Una goffa concessione all’ideologia verde che quasi certamente gli costerà carissimo in Stati che vivono di idrocarburi come Texas, Pennsylvania e Ohio. Questi ultimi due, peraltro, sono swing States, il che dà la misura di quanto clamoroso sia l’autogol del democratico.
Presidenziali Usa, lo stato dell’arte
Il sistema elettorale d’Oltreoceano ha poi almeno altre due caratteristiche interessanti. La prima è che consente l’early vote (voto anticipato) e il vote by mail (voto per posta). La seconda è che gli elettori devono registrarsi secondo l’appartenenza partitica, il che consente già, a grandi linee, di fare dei calcoli sull’andamento reale. Cum grano salis, naturalmente, perché nulla vieta che si possa votare in modo diverso dalla “tessera”, e perché c’è sempre l’incognita degli indipendenti.
Purtuttavia, c’è chi sta già facendo dei conti, basandosi anzitutto su un dato. Chi sta votando in anticipo e/o per posta è in maggioranza democratico, laddove i sostenitori del Grand Old Party si esprimeranno preferenzialmente all’Election Day. Questo perché gli elettori dell’Asinello si sono persuasi – grazie ai manutengoli del pandemicamente corretto – che votare di persona comporti rischi per la salute. Nessuna sorpresa, quindi, che al momento nelle percentuali del vote by mail domini il blu del Partito Democratico.
Tuttavia, se si fa una proiezione numerica – sempre coi succitati caveat -, si scoprono dei dettagli interessanti. Per esempio, che in due swing States come North Carolina e Florida – che i sondaggi assegnano a Biden – i dem non sono soltanto in ritardo. Sono addirittura lontanissimi dall’eguagliare la performance del 2016.
Nella Carolina del Nord, per esempio, Sleepy Joe dovrebbe perdere quasi 200.000 consensi rispetto a quattro anni fa. E tra le Everglades il gap reale tra i due schieramenti premia già il GOP. Tanto che un editorialista della CNBC, Jake Novak, si è già detto sicuro – suo malgrado – che Trump abbia già in tasca il Sunshine State. Non solo. Se Mr. President dovesse conquistare l’Ohio (l’unico dei battleground States in cui è dato in vantaggio), difficilmente potrà perdere in Stati chiave culturalmente simili quali Michigan e Wisconsin.
Questione di affluenza
Questo, naturalmente, non significa che i giochi per le Presidenziali Usa siano già fatti. Per esempio, perché i Repubblicani potranno ripetere l’exploit del 2016 solo se, come minimo, confermeranno le preferenze dell’ultima tornata. Per ciò che si è detto prima, molto diventa quindi una questione di affluenza.
L’appuntamento è quindi al prossimo 3 novembre, data fissa e assieme variabile come la Pasqua. Negli Stati Uniti, infatti, l’Election Day si svolge sempre il martedì successivo al primo lunedì di novembre, per evitare che cada in un giorno festivo quale Ognissanti.
E a tutti i Santi faranno bene a votarsi i megafoni dell’establishment e del politically correct. Perché anche stavolta rischiano seriamente che la narrazione ceda il passo a quella cosetta insignificante che si ostina a interromperne i sogni. E che si chiama, per gli amici e non solo, realtà.