Quelli che non stanno con Papa Francesco
Quelli che si dicono alternativi e poi non stanno con Papa Bergoglio
La migliore metafora resta quella del bel romanzo L’uomo che fu giovedì di Gilbert Keith Chesterton. Lì, nel dipanarsi della trama, si scopre come il consiglio anarchico europeo che si riunisce in un luogo segreto ed è composto da sette uomini, ognuno dei quali usa per qualificarsi in codice il nome di un giorno della settimana, è in realtà la riunione di sei agenti segreti i quali, a insaputa l’uno dell’altro, sono misteriosamente impegnati – al di là della loro professione di fede libertaria – alla denuncia e alla sconfitta della prospettiva anarchica. Più che di eterogenesi dei fini o di rovesciamento di segno del loro impegno è il caso di parlare di soggetti che lavorano – consapevolmente o meno – al servizio di quelli che, al di là di quanto viene dichiarato o scritto, dovrebbero essere i loro avversari. È questa una metafora che viene spontaneamente in mente guardando in filigrana quanto scrivono alcuni esponenti di quella cultura che nella convenzione mediatica viene ancora considerata non-allineata e non-conforme agli schemi dominanti.
L’impressione è che forse per tanti anni avevamo e abbiamo sbagliato. Avevamo infatti pensato che da Marco Tarchi a Geminello Alvi, da Stenio Solinas a Massimo Cacciari, da Franco Battiato a Pietro Barcellona, da Massimo Fini a Alfredo Cattabiani, da Giuseppe Conte a Eduardo Zarelli, da Gary Snyder a Alain de Benoist, era possibile delineare e intelaiare una trama di pensiero alternativo utile a fronteggiare e forse pure sconfiggere – creando varchi possibili e inediti – la cultura cosiddetta egemone. Oggi a ben leggere molte cose sembra invece che almeno qualcuno di questi operatori culturali, nonostante la suggestione estetica e il riferimento eterodosso di facciata, finisca, consapevole o meno, per fare il gioco degli equilibri e dei poteri dominanti.
Nello specifico, penso al lavoro di scrittura di due amici, di due persone di cui per anni ho condiviso una serie di passaggi e anche di opzioni metapolitiche: Geminello Alvi e Pietrangelo Buttafuoco.
Leggendo infatti con molta attenzione l’ultimo saggio dell’economista-letterato – La Confederazione italiana. Diario di vita tripartita (Marsilio, pp. 384, euro 22,00 – così come molti articoli dello scrittore e giornalista siciliano se ne ricava l’impressione che, alla fine, entrambi finiscano per collocarsi, malgrado tutto e nonostante tutto e al di là delle loro stesse dichiarazioni, all’interno dello schieramento neo-fallaciano e occidentalista che, per semplificare, va da Giuliano Ferrara a Gaetano Quagliariello e che include pure Ida Magli e Magdi Allam… E lo sosteniamo testi alla mano perché, alla prova provata delle intenzioni, quella Chiesa di papa Bergoglio che oggi è l’unica alternativa di vita, di realtà e di speranza concreta all’occidentalismo egoista e utilitarista, emerge invece nei loro scritti solo come obiettivo polemico e ironico quando non come soggetto da contrastare.
In questi due amici, ma anche in altri scrittori e giornalisti, il continuo riferimento a una serie di icone mitiche e assolute quanto astratte – siano esse la Chiesa preconciliare, l’ortodossia dei pope, l’Islam degli sciiti, la Russia come Terza Roma, il paganesimo classico – diventano a nostro avviso le maschere di un nuovo pensiero decadente e neo-apocalittico che nella sua natura “incapacitante” ci appare di fatto funzionale all’occidentalismo più sfrontato e rampante. Come interpretare infatti le ironie su Ratzinger, il papa che s’è dimesso, e quelle al presunto populismo di Bergoglio quando in realtà – basta vedere la recente visita del pontefice a Lampedusa e lo stesso saluto ai musulmani che il giorno dopo avrebbero iniziato il Ramadan – le posizioni della Chiesa sono le uniche a porsi sul serio contro la deriva utilitaristica del mondo, la xenofobia diffusa e la stessa finanziarizzazione dell’esistenza?
Eppure Alvi se la prende, ad esempio, con il “completarsi canzonettistico dello scempio liturgico”, con “una Chiesa cattolica che per eutanasia liturgica si è scomunicata da sola”, con il “ripopolamento arabo e africano dell’Italia”, con “l’Italia che favorisce l’invasione di stranieri migranti”, con “le tesi dei centri sociali che soddisfano il Vaticano”, con “l’emozione per il ritmo: rumore, suono degenerato dei negri…”.
Quello che si presenta come un bel libro, peraltro scritto con una grande finezza lessicale, lascia però affiorare la riproposizione di tutta una serie di luoghi comuni neo-reazionari, dalla recriminazione contro il Sessantotto alla fobia per la cultura di massa e per le nuove tecnologie, che ne inficia e condiziona non poco l’impianto metapolitico di fondo.
Emerge, anche nella dichiarazione di preferenza per l’ortodossia russa o nel disprezzo per l’opera di René Guénon, una più o meno coperta virulenza anticattolica che lascia trasparire solo la scelta di campo per il cosiddetto “pensiero forte”. Che è poi il tratto specifico che unisce Alvi agli altri operatori della scrittura di cui abbiamo parlato. Un “pensiero forte” che, al di là delle più varie opzioni estetiche – nel suo caso un pensiero risorgimentale mazziniano, in altri l’Occidente astratto o un Islam iranico da orientalismo datato, in altri ancora la visione dell’Eurasia o la paganitas classica – rimanda sempre al rifiuto della contaminazione e della pluralità relativa del mondo. Rifiuto e contrasto che è poi quello che l’occidentalismo al potere pratica e persegue da decenni attraverso l’omologazione delle culture e delle differenze.
“Forte è invece il pensiero debole” sostiene da tempo il filosofo cattolico Dario Antiseri, polemico con questa precisa tentazione politico-culturale. “Il pensiero debole – ribatte – è una filosofia che avendo distrutto gli assoluti terrestri mostra all’uomo la sua creaturalità e la sua contingenza e apre alla spiritualità. Solo il pensiero debole è la filosofia che punta alla distruzione dei vitelli d’oro, che dischiude uno spazio umano libero dagli assoluti terrestri, che è il luogo privilegiato della speranza oltre i feticci ideologici…”. Lo attesa anche un altro intellettuale cattolico come Vittorio Messori, da sempre schierato contro chi fa della fede cristiana o di altre opzioni religiose o estetiche un semplice instrumentum regni in funzione di copertura ad assetti di potere.
“Mi trovo a mio agio – sostiene invece Messori – in una open society, una società aperta, questa società sempre più meticcia e sempre più complessa. Amo la libertà annunciata da Cristo e dal suo Vangelo, da proporre e mai da imporre. Mi piace la vita come avventura, dove santi e mascalzoni si intersecano, dove si confrontano il bene e il male. Amo le metropoli, le giungle d’asfalto, ben più del controllo sociale del villaggio, amo il ribollire delle grandi città, dove la storia si costruisce attraverso la trama infinita dei liberi rapporti umani…”.
Ultima annotazione.
È nostra convinzione che il fascino per le maschere del pensiero forte conduca molti a non vedere le dinamiche reali della partita in gioco e quindi a farsi incantare, finendo in una trama simile al romanzo di Chesterton da cui siamo partiti. Perché infatti – tanto per fare un esempio – anche chi, come il buon Buttafuoco, ha pure scritto un’intera pagina per dirsi “saraceno” poi non interviene come si dovrebbe contro chi ha attaccato papa Bergoglio per aver difeso il diritto alla vita degli immigrati maghrebini e presentandolo come succube del pensiero debole? Il contrasto reale all’islamofobia non lo si esprime gingillandosi di geopolitica o vagheggiando esotismi letterari ma, qui casca l'asino, invocando i diritti di cittadinanza per i musulmani immigrati che vivono in Italia e contrastando pubblicamente tutti i loro avversari.