Questo non è una pipa, Michel Foucault
Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi
René Magritte, il famoso pittore belga e maggiore esponente del Surrealismo, era detto anche “le saboteur tranquille” per la sua capacità di insinuare dubbi sul reale attraverso la rappresentazione del reale stesso; quel reale che non avvicina per interpretarlo, né per ritrarlo, ma per mostrarne l’indefinibile mistero.
Nel 1929 dipinge olio su tela il quadro “La Trahison des images”, in italiano: “Il tradimento delle immagini”, attualmente conservato al Los Angeles County Museum of Art.
Nel quadro egli raffigura alquanto realisticamente una pipa sotto la quale è scritto a mano "Ceci n'est pas une pipe", “Questo non è una pipa”. L’immagine è dipinta in maniera così verosimigliante da non lasciare dubbi, mentre la didascalia, come negando l’evidenza, afferma che quello che vediamo non è quello che sembra.
Negli anni a seguire, l’opera di Magritte viene valutata dalla critica in maniera superficiale: suggestiva, bizzarra, irrazionale, accademica. Fino a quando non arriva Michel Foucault, il sociologo, filosofo, autore francese di questo libro. Egli cerca di svelare l’ambiguità dell’evidente paradosso, buca la superficie di quell’immagine, mostrandone le implicazioni filosofiche fino ad arrivare al cuore della questione, laddove il pittore arriva a superare il principio cardinale della pittura classica: il legame fra verosimiglianza e rappresentazione per cui “dipingere è affermare”.
Magritte cerca di liberare la pittura dalla dittatura del verosimile e da quella supposta realtà oggettiva di cui l’opera ne sarebbe imitazione.
Ciò che abbiamo davanti agli occhi osservando il quadro non è una pipa ma solo una rappresentazione pittorica che evoca in noi l’immagine di qualcosa di esistente. Magritte nella sua didascalia, con grande intelligenza ed ironia, contesta il criterio di equivalenza tra somiglianza e affermazione. Se egli avesse scritto “Questo è una pipa” avrebbe mentito, poiché quella pipa non può essere riempita di tabacco ed essere fumata. Tale constatazione dimostra che una rappresentazione non può assumere il ruolo di un oggetto reale, e che il linguaggio opera delle ampie semplificazioni. L’accostamento tra scrittura e rappresentazione da origine a sua volta all’accostamento tra lettura e osservazione creando un conflitto tra leggere e vedere. Emerge così che vi è una netta separazione tra il mondo dei segni, in questo caso delle pennellate, pieno di contraddizioni, e quello reale.
Provando a riassumere la filosofia di Magritte in un paragone, si può dire che tra immagine e oggetto rappresentato c’è tanta distanza quanta ce ne è tra parola e oggetto a cui si riferisce.
Il pittore in una delle sue lettere nel libro afferma:
“Le cose non hanno somiglianze tra di loro. Spetta soltanto al pensiero di essere somigliante. Esso somiglia essendo ciò che vede, intende o conosce, esso diventa ciò che il mondo gli offre”.
Le cose non sono sempre come appaiono, e ciò che altera e compromette la realtà, alle volte fino a convincere di vedere cose che non ci sono, è il contrasto tra l’intenzione di leggere la realtà mediante quella cognizione che a priori possediamo, che a sua volta fa riferimento alla soggettiva realtà individuale, e il desiderio di come vorremmo che essa fosse; malgrado nella vita non ci siano didascalie ad aprirci gli occhi.