Raccomandazioni? L’autodenuncia del prof. Zeno Zencovich
Ecco il testo della lettera pubblicata da “Il Foglio”, di Giuliano Ferrara
Il 6 novembre scorso, sul Foglio di Giuliano Ferrara è apparsa una lettera a firma di Vincenzo Zeno Zencovich, professore ordinario dell’Università di Roma Tre che detiene la cattedra di diritto comparato.
La lettera, che a prima vista sembrerebbe una vera e propria autodenuncia, già dalle prime righe assume toni ironici, al limite del paradossale e del bizzarro.
"Illustre Signor Procuratore – si legge nella lettera – mi è stato riferito che Ella (o qualche suo collega: tanto la competenza territoriale è ormai ubiqua) ha disposto la intercettazione sulle varie utenze telefoniche a me riferibili. Vorrei risparmiare a Lei, ai suoi sostituti, ai sempre vigili ufficiali di polizia giudiziaria una fatica inutile. E alla collettività una spesa che meglio potrebbe essere impiegata per altre finalità di giustizia. Lo dichiaro apertamente: sono reo confesso. Associazione per delinquere. Abuso in atti d’ufficio. Corruzione, attiva e passiva. Traffico di influenza. Adsum qui feci".
Con queste parole, il professor Zencovich apre la lettera. E continua: "E se Lei vorrà aggiungere, per sovrammercato, i reati di attentato ai diritti politici e di associazione di stampo mafioso e camorristico (per via dei miei innegabili legami con la Sicilia e la Campania), non mi sottrarrò, cavillando, alle mie responsabilità. Ella, come molti altri suoi colleghi, è impegnato da tempo nello sradicare la mala pianta che cresce nei giardini dell’università italiana: “Concorsi truccati”, “concorsopoli”, “parentopoli” sono gli immaginifici titoli che alle sue inchieste forniscono i giornali e le televisioni. Poiché io di questo sistema faccio parte, quei reati li commetto da anni, e continuerò, se non arrestato, a commetterli, sento il dovere di autodenunciarmi. Non posso più continuare a vivere come centinaia di miei colleghi che, in queste settimane conclusive delle procedure dell’Abilitazione scientifica nazionale (il 30 novembre dovranno essere tutte terminate), vivono nel terrore: di fare una telefonata, di scrivere un biglietto, di mandare un messaggio di posta elettronica, di incontrarsi. Se lo fanno, sembra una scena dalla migliore spy story: entrare da due ingressi separati in un albergo; casualmente scambiare alcune parole durante il buffet di un convegno; rigorosamente togliere la batteria dal telefonino o lasciarlo in un’altra stanza. E ancor più delle manette li spaventa finire sbattuti in prima pagina, come di recente è capitato a una serie di “saggi” nominati per la revisione della Costituzione e tirati in ballo per una oscura vicenda concorsuale".
Ed è qui che si inizia a percepire il tono ironico e provocatorio della lettera.
“Perché – ai fini della contestazione delle aggravanti di legge – lei abbia contezza della intensità del dolo che mi anima le dirò che: 1. Penso che sia dovere di ogni professore universitario dire in pubblico e in privato quello che pensa dei propri colleghi e di coloro che aspirano a esserlo. Esprimere il suo giudizio sui loro lavori, sulle loro capacità didattiche e organizzative, sul loro carattere. 2. Soprattutto deve farlo nei momenti in cui è in atto un processo di selezione e nei confronti dei selezionatori. Non si tratta di una indebita pressione ma di un necessario complemento alla formazione del convincimento di chi è chiamato a decidere. Di un contributo a una discussione che spetta a tutta la comunità scientifica di cui la commissione non è un giudice imperscrutabile e inavvicinabile, ma un “organo tecnico”. 3. L’ambiente accademico è quel che si definisce un “mercato reputazionale”: ben prima di guadagnarsi i gradi ci si è fatti conoscere, apprezzare o deprezzare, si è data prova concreta di operosità e competenza”.
“Qui – prosegue – la parola “raccomandazione”, che altrove appare esprimere la progressione degli incompetenti, assume il suo significato più veritiero. Un docente raccomanda un giovane studioso perché ne apprezza e loda (“commenda”) le qualità, fa affidamento su di esse, ma al tempo stesso impegna la propria figura, la propria credibilità. Da questo punto di vista tutti i docenti universitari sono “raccomandati” e più sono “raccomandati” più significa che godono di una stima diffusa. Non vi sono candidati “sconosciuti” e se lo sono ci si deve chiedere perché lo sono, e perché tutto d’un tratto dovrebbero essere scoperti come un tesoro sepolto. Signor Procuratore, perché sia chiaro che non intendo sfuggire a nessuna delle imputazioni che mi verranno elevate, non mi nasconderò dietro il facile argomento che in tutto il mondo civile, soprattutto in quei paesi che vengono additati come modello di eccellenza accademica, succede così. Apertamente ci si pronuncia, come apertamente i decisori ascoltano, riflettono, scelgono. Certamente ci si fanno degli amici e dei nemici, le maldicenze corrono, taluni soccombenti sospettano una congiura ai loro danni. Ma anche in questo caso quel che conta è il giudizio della comunità, non di un tribunale o, peggio, di qualche incompetente giornalista i cui titoli di studio probabilmente andrebbero esaminati con attenzione. Né mi sfiora l’idea di utilizzare una retorica di basso conio chiedendo a Lei, Signor Procuratore, se quando si è apprestato a sostenere l’esame orale per l’accesso alla Magistratura qualcuno l’ha “raccomandata” (nel senso di cui sopra) alla sua commissione di concorso; se quando dalla sua prima e disagiata sede periferica ha chiesto il trasferimento presso un ufficio giudiziario più grande e prestigioso qualcuno o più d’uno ne abbia lodato l’impegno, l’assiduità, la perspicacia; e infine se risponde al vero che nel concorso per assumere il prestigioso incarico di Procuratore capo che ora ricopre in diversi siano intervenuti presso il Consiglio superiore della magistratura indicando in Lei, senza ombra di dubbio, la persona più meritevole. Ma devo interrompere questa lettera. Hanno suonato al citofono e dalla finestra vedo la inconfondibile uniforme di un ufficiale della polizia giudiziaria che deve notificarmi, in tempo reale, un provvedimento restrittivo della libertà che riporta quasi testualmente il contenuto della missiva. Sono lieto che le intercettazioni, anche ambientali e telematiche, funzionino con una efficienza da fare invidia alla National Security Agency. Mi dispiaccio solo che domani non mi sarà consentito leggere i titoli cubitali sull’organizzazione criminale che è stata smascherata. In ogni caso, buon lavoro! Mi creda suo, e rispettosamente mi firmo Vincenzo Zeno-Zencovich Ordinario di diritto comparato nell’Università di Roma Tre Rettore dell’Università degli Studi internazionali – Roma (UNINT)”.
È tutto racchiuso in queste ultime righe il senso della missiva: la raccomandazione è roba da vili, mediocri, incapaci. Solo quando tocca agli altri, però.
Il professor Zencovich, invece, denuncia una realtà che è sotto gli occhi di tutti: la raccomandazione esiste. E non sempre è una cosa così negativa: in un mondo di raccomandati, in un mondo in cui ognuno conosce qualcuno, a volte conoscere le persone giuste può aiutare i meritevoli ad emergere, perché l’incapace smetta di danneggiare se stesso e il suo prossimo.
Non è una lode alla raccomandazione, non è un omaggio alla corruzione, né un plauso ad un sistema corrotto perché corruttibile: è una fotografia di una realtà che, stando alle parole del professore, tutti abbiamo incontrato, conosciuto. E se ancora non ci è successo, prima o poi succederà anche a noi. E il sistema corrotto perché corruttibile, in quel preciso istante, inizierà a rimettersi in moto, in un vortice senza fine.
Così la lettera di denuncia personale diventa in realtà un mezzo per spiegare, a chi voglia capire il senso delle parole, che la realtà ha superato la fantasia, la quale non riesce neppure a immaginare fin dove questo sistema si sia spinto. Un sistema che non è possibile combattere, forse. E non è possibile farlo, poiché è corrotto perché corruttibile. Ed è corruttibile, poiché sono gli stessi uomini ad esserlo.