Recovery a fondo, c.v.d.: il veto di Ungheria e Polonia fa saltare l’intesa
I Paesi dell’Est, com’era prevedibile, bocciano lo stato di diritto versione Bruxelles. E, con l’opposizione latente dei Frugali, il Next Generation Eu diventa un miraggio
Da Recovery Fund a Recovery a fondo è stato un attimo. Com’era infatti ampiamente prevedibile, la richiesta di votare per intero il pacchetto tripartito del Quadro Finanziario Pluriennale ha terremotato l’intesa faticosamente raggiunta qualche giorno fa. E, di riflesso, anche la Manovra italiana per il 2021, nella quale il Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri pregustava da tempo l’inserimento dell’acconto sui finanziamenti europei.
Recovery a fondo
Recovery a fondo, come volevasi dimostrare. Ancora una volta, sul Fondo per la Ripresa siamo stati facili profeti. Lo diciamo senza particolare orgoglio, sia perché quest’ulteriore fallimento comunitario si riverbera anche sull’economia nostrana, sia perché per pronosticarlo era sufficiente togliersi i paraocchi dell’ideologia.
Quella che faceva esultare (legittimamente) gli euroinomani per l’accordo tra Consiglio Ue e Parlamento europeo annunciato dalla presidenza di turno tedesca del consesso degli Stati membri. Ma che al contempo impediva di scorgere le nubi che attorno a questo accordo avevano immediatamente cominciato ad addensarsi.
Il presidente del Ppe, l’altro teutonico Manfred Weber, aveva infatti spinto perché l’Eurocamera si esprimesse globalmente su tutte le gambe della “triplice intesa”. Non solo, cioè, sul Bilancio settennale della Ue, che è legato al Recovery Fund ed è l’unico punto su cui gli euroburocrati concordavano effettivamente. Ma anche sulla Recovery and resilience facility, che con i suoi 672,5 miliardi di dotazione sarebbe il fulcro del programma Next Generation Eu. E, soprattutto, sulla vexata quaestio dello stato di diritto, versione Bruxelles.
La polemica sullo stato di diritto
È qui che i negoziatori comunitari hanno fatto i conti senza l’Est. Con ciò intendendo Ungheria e Polonia, che su questo elemento hanno posto il veto già da tempo annunciato.
L’aspetto paradossale è che, nella pratica, Budapest e Varsavia hanno bocciato il budget 2021-2027 e la linea di credito pandemica, su cui non hanno obiezioni. Sono però i termini che richiedono l’unanimità, il grimaldello che ha permesso ai due Paesi del Gruppo di Visegrád di imporre l’ennesimo stop all’intero piano.
Come ha cinguettato uno sconsolato Sebastian Fischer, portavoce della presidenza di turno del Consiglio europeo. «Gli ambasciatori europei non sono riusciti a raggiungere l’unanimità necessaria per avviare la procedura scritta» sulle risorse proprie, «a causa delle riserve espresse da due Stati membri».
I Governi guidati da Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki considerano infatti un «ricatto politico» il meccanismo che condiziona l’erogazione dei fondi al rispetto, appunto, dello stato di diritto. Formula densa di nobili istanze, sotto le quali però, as usual, l’Unione Europea nasconde subdoli intenti. Dall’obbligo di accoglienza assoluta e indiscriminata alla genuflessione all’ideologia gender. Vale a dire quel delirio antropologico volto a slegare il sesso dal dato biologico, farneticando che l’identità autopercepita dovrebbe contare più del DNA (che è immutabile).
Materie, peraltro, che attengono al vero stato di diritto, quello secondo cui la sovranità appartiene ai popoli, non a qualsivoglia organo sovranazionale. Che a volte dimentica di dover rispettare la volontà dei cittadini anche quando non coincide con i propri desiderata.
Recovery a fondo, la narrazione e la vera minaccia
Intanto, il nostro Cancelliere dello Scacchiere ha anticipato l’intenzione, da parte dell’esecutivo rosso-giallo,di chiedere alle Camere un nuovo scostamento di Bilancio. Quasi inevitabile, visto che è saltato l’atavico piano di inglobare nella Finanziaria i primi 20 miliardi di aiuti.
Colpa, ça va sans dire, dei «sovranisti cattivi» che tengono in ostaggio la presunta “Europa solidale” (sic!), come i megafoni del politically correct vanno ripetendo. E sono gli stessi che spacciano la Cina per modello di contrasto al Covid-19 e la rassegnazione dei suoi abitanti per adesione culturalmente volontaria alle disposizioni del regime.
Il fatto è che, come spesso accade, la narrazione del Giornale Unico è anche corretta – però parziale. Nel caso specifico, per dire, ignora che la minaccia più grande al piano di euro-rilancio, benché latente, arrivi in realtà dal Nord. Più precisamente dai Paesi Frugali, i cui Parlamenti, scettici se non ostili all’intero progetto, volentieri manderebbero definitivamente il Recovery a fondo. Soprattutto sulla parte relativa alle risorse proprie, che autorizza la Commissione Ue a fare debito comune, da ripagare poi attraverso una pletora di nuovi balzelli. Tra cui la plastic tax e un’imposta sulle transazioni finanziarie, oltre alle immancabili concessioni ai vaneggiamenti ambientalisti.
La montagna e l’euro-topolino
In ogni caso, un’approvazione in tempi brevi è ormai divenuta un miraggio, come ha ammesso Antonio Misiani, viceministro dem all’Economia. Il quale ha auspicato la fine dei diktat, come del resto Michael Roth, Ministro per gli Affari Europei di Berlino. Secondo cui «non è il tempo dei veti», ma quello della solidarietà.
Sottoscriviamo. E perciò ci auguriamo che l’Europa rinunci rapidamente alle sue ingerenze, così da poter approvare senza ulteriori indugi il Next Gen Eu.
Già la salita si è trasformata in una montagna da scalare. Sarebbe inaccettabile se, oltretutto, finisse per partorire il solito euro-topolino.