Roma, Mafia Capitale. Ora è chiaro: il 416 Bis poteva essere applicato
L’importanza dell’art. 416 bis come strumento indispensabile per reprimere la realtà camaleontica delle organizzazioni mafiose
Il camaleontismo delle nuove mafie richiede un 416bis che consenta innanzitutto di riconoscere gli elementi che connotano l’associazione mafiosa. Questo è uno dei principali problemi della storia processuale di “Mafia Capitale”.
Le mafie non sono più organizzazioni statiche ma dinamiche che si radicano in un territorio adattandosi e plasmandosi a qualsiasi differente ambito. Questa esigenza da me sollevata in tempi non sospetti (2012) è stata acutamente affrontata dalla Corte di appello di Roma con il processo “Mafia Capitale”, e nell’affrontare tal esigenza ha fornito, a mio avviso, un indirizzo importante alla giurisprudenza futura.
Le nuove mafie possono essere perseguite utilizzando gli strumenti a disposizione, ossia l’articolo 416bis del codice penale. Le indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Roma diretta da Giuseppe Pignatone hanno ricostruito un quadro probatorio chiaro: su una serie di reati scopo, usura, recupero crediti, estorsioni, il cosiddetto “mondo di sotto”, si era incardinata un’organizzazione criminale in grado di determinare parte dell’attività politico-amministrativa di Roma (appalti, concessioni, forniture, erogazione di fondi), il cosiddetto “mondo di sopra”, composto di politici, imprenditori, funzionari, professionisti.
L’elemento intimidatorio era garantito da entrambi i “mondi”, che all’occorrenza garantivano i traffici illeciti del sodalizio criminale. Condivido l’orientamento della Corte d’appello romana poiché riconosce la matrice “mafiosa” alla funzione di quei gruppi e soggetti che non si limitano a gestire traffici illeciti, ma sono capaci di garantire l’associazione criminale e farne rispettare le regole.
Tale assunto, inevitabilmente, non può non valere per entità criminali non connotate da una struttura organizzativa rigida, articolata in ruoli e funzioni, pur se non rafforzate da rituali d’iniziazione, contenute nell’articolo 416bis.
I giudici di secondo grado ci dicono, giustamente, che sia mafiosa anche quell’attività violenta assicurata da strutture criminali più fluenti e incerte nei loro confini, soggetti capaci comunque di esercitare, grazie alla caratura criminale di alcuni loro membri una funzione intimidatrice che genera, nei loro interlocutori così come al loro interno, asservimento e omertà.
Il confine di applicabilità della fattispecie incriminatrice dell’articolo 416bis si può dunque ampliare anche alle “nuove mafie” in perfetta simbiosi alle strategie delle “vecchie mafie” che di norma sostituiscono all’esercizio materiale della coercizione la valenza deterrente di una reputazione violenta.
In buona sostanza il nuovo sodalizio mafioso contiene sia minacce all’incolumità fisica sia il potenziale intimidatorio dei cosiddetti “colletti bianchi” di una prospettata “morte” imprenditoriale, politica, professionale, che conseguirebbe all’esclusione dai circuiti economico-imprenditoriali idonei a essere parte del mercato. La corruzione diventa dunque essa stessa intimidazione poiché garantisce piena saldatura tra regolazione mafiosa e pratica quotidiana di una associazione criminale organizzata.
La sentenza d’appello di “Mafia Capitale” è condivisibile non solo per la sua valenza pratica ma anche perché apre la strada a un dibattito sull’importanza dell’art. 416 bis come strumento indispensabile per reprimere la realtà camaleontica delle organizzazioni mafiose che cambiano pelle, adeguandosi agli standard criminali dei territori in cui s’insediano e usano l’intimidazione violenta o corruttiva secondo gli interlocutori che si trovano davanti. Una sentenza che mi auguro faccia giurisprudenza in Italia e in Europa. (Vincenzo Musacchio, Giurista)