Roma. Un immigrato degli anni ’60 ricorda la Capitale di allora
Negli occhi di un bambino di provincia, il ricordo di una capitale bella, ottimista, accogliente, tranquilla e bonacciona, che oggi non riconosco più
Chiunque viva o abbia vissuto a Roma negli ultimi 20 anni, si rende conto che la qualità della vita è peggiorata. Perché a Roma si vive sempre peggio? Non può essere tutta colpa della Raggi, anche perché le sue responsabilità sono troppo recenti. Forse la Raggi le ha assestato un colpo fatale, dal quale sarà difficile recuperare, questo si, tuttavia non ce la possiamo cavare sempre col dare la colpa dei mali di Roma alla politica.
Innanzi tutto la qualità della vita in una città va sempre di pari passo con la estensione della sua popolazione residente e del suo territorio. Roma in tal senso era partita con molti privilegi, che derivavano dalla sua collocazione in un contesto ambientale, che gli antichi fondatori scelsero con enorme lungimiranza, quella che è sempre mancata agli amministratori della nostra epoca. Roma è una delle città con maggior estensione di verde, è paradossalmente agricola, con fattorie e campi e prati frequentati da greggi e mandrie ancor oggi. Questa fu la sua antica vocazione e sarebbe stato meraviglioso poterla conservare com’è accaduto per altre piccole città medievali, che hanno avuto un giusto equilibrio con la campagna limitrofa, in un andirivieni di merci e persone che ne stabilivano un ordine ideale di convivenza. Siena, Urbino, Lucca, L’Aquila prima del terremoto, Parma sono così. Palermo era così prima che distruggessero gli aranceti del suo hinterland. Quando città e campagna sono intimamente connesse, in un flusso commerciale e produttivo che valorizza entrambe gli aspetti, la vita della comunità ne trae vantaggio. Quando il cemento spazza via la campagna, arrivano le fabbriche, gli inceneritori, l’inquinamento e la periferia diventa prima baraccopoli e poi palazzine anonime. Degrado.
Il suo male deriva dall’essere Capitale d’Italia
Roma sarebbe stata una splendida città d’arte se non fosse diventata la Capitale d’Italia, se non avesse subito l’invasione piemontese, che si manifestò con l’architettura pesante dei ministeri e dei palazzi umbertini e del conseguente afflusso di burocrati a occuparne quartieri sempre più densi di gente e mezzi. Lo sviluppo di Roma, dovuto al boom economico negli anni ’60, con le mani sulla città da parte dei palazzinari, frutto e causa dello sviluppo economico stesso, stravolse i suoi confini e i panorami. Nei film del neorealismo si vedono ancora campi a perdita d’occhio, tra qualche palazzotto scalcinato della periferia, che non oltrepassava Don Bosco. In “Guardie e ladri” Totò e Aldo Fabrizi si inseguono in una campagna ancora libera dal cemento. Ostia era un litorale tranquillo, un paese lontano, dove ancora non albergava la mafia degli Spada. I Castelli anche. Ora sembra un’unica metropoli da La Storta a Marino, da Malagrotta a Torvaianica. L’ EUR era stato costruito lontano dal centro, ora è stato risucchiato nel vortice del caos metropolitano. Ricordo quando vennero inaugurate l’Olimpica, la strada che permetteva di correre velocemente fra le varie strutture dei Giochi. Quando Corso d’Italia sparì per lasciare spazio ai sottopassaggi veloci. Allora, percorrerli con la Topolino di mio padre, ne sentivo tutta la novità e mi sembravano piste giganti. Oggi mi sento male solo all’idea che dovrò probabilmente passarci un’ora quotidiana, nel solito blocco del Muro Torto, sperando di non trovare un’incidente, perché è oggettivamente una strada troppo stretta per tutte quelle auto, autobus, furgoni e moto che la intasano.
I primi anni da immigrato
Inutile fare la retorica di com’era bella Roma e com’era bello viverci. Quando ci arrivai dal mio paese maremmano, andammo a vivere nella periferia estrema. Via di Bravetta, oltre Monte Verde. Mi ricordo che la palazzina dove vivevamo, assieme a una famiglia di altri “immigrati”, solo che loro erano tedeschi (sic!), era in piena campagna e la strada davanti all’ingresso era sterrata. Andavo a scuola a piedi accompagnato da mia madre, che aveva allora meno di trent’anni e la ricordo bellissima, con una cascata di capelli fulvi, mossi, che mi è rimasta nel cuore. Quando tornavamo da scuola ricordo che le camminavo dietro, un po’ per ammirare quei capelli e un po’ perché ero geloso di chi, lungo la strada, si voltava a guardarle le gambe.
In classe mi chiamavano il “toscano” e mi prendevano in giro per l’accento e la “c” afona, che i non toscani non hanno mai capito quando va usata e quando no. Non m’importava dello scherno, che non era ancora bullismo, per carità, mi dispiaceva aver lasciato il mio paese. Dove ero nato e avevo vissuto fino a 8 anni. Là frequentavo la scuola vicino casa. Se era bel tempo andavo al mare. Potevo girare a piedi o in bici in piena libertà. Non c’erano pericoli di alcun tipo. Tutti sapevano chi ero. A scuola, col grembiule azzurro e l’inchiostro sul banco, ero già segretamente innamorato di Loretta. Una bambina della mia età, che non l’ha mai saputo. Anche se ci scambiavamo sguardi con insistenza.
A Roma passavo i pomeriggi a casa dei miei amichetti germanici, che vivevano in una dimensione di casino casalingo per me affascinante. In casa mia l’ordine regnava perfetto e immutabile. Da loro si saltava su divani sgangherati e cuscini per ogni dove. Mentre noi vivevamo per la casa, da loro la casa era al servizio delle esigenze dei bambini. Questa differenza mi colpì moltissimo. Fù da lì che compresi che c’era qualcosa di interessante nelle culture lontane dalla mia, qualcosa di diverso e funzionale. In questo caso mi affascinava il senso di libertà, così lontano dal mondo pulito che mia madre aveva introiettato in me. Ero un bambino conservatore. Potevo restare tale. Per fortuna Roma mi cambiò con le sue occasioni, le opportunità di conoscere, di imparare. Una città resta pur sempre una città.
I tedeschi avevano la tv, noi la comprammo un anno dopo. Da loro si guardava Rin Tin Tin e Rusty. Da noi la tv aveva una copertina di stoffa per proteggerla dalla polvere e la sera si apriva, come in un rito sacro, per guardare tutti insieme “Studio Uno”. Avevo una gatta siamese, che poi ha vissuto con i miei e con me fino all’età di 17 anni. Quando facevo il militare un giorno decise di andarsene. Per me, figlio unico, è come se ricordassi una sorella. Giulietta si chiamava e Titta era stata rinominata. Era la superstite di una coppia, il cui maschio Romeo, morì per non so quali ragioni, giovanissimo e venne seppellito in una scatola di cartone lungo l’Aurelia antica, nel tratto che raccorda via di Bravetta e l’Aurelia nuova. Allora almeno era nuova…
Sull’Aurelia ci ho passato la mia vita
L’Aurelia è la strada che avrò percorso con i miei genitori, e poi solo o con mia moglie e le mie figlie, e poi con la seconda moglie, qualcosa come 2.500 volte, in un senso o nell’altro, in auto o in treno. Abitualmente la famiglia immigrata torna nel paese d’origine almeno due o tre volte al mese, quando è molto vicino. Il mio era a 230 km. Quando l’Aurelia era stretta a due corsie era un ‘avventura. Oggi lo è in parte ancora. Primo perché il tratto tra Tarquinia e Grosseto è per molti km quello vecchio, secondo perché il traffico è aumentato e la velocità delle auto pure. In pratica l’Aurelia è stata uno dei tetari della mia vita. Le gite a Tuscania e a Tarquinia. Al mare a Ladispoli. A pranzo al ristorante della Posta (ex Villa Ghetty) a Passoscuro. A Cerveteri per le riprese televisive in campagna. Poi per sette anni ho affittato una casa al mare, con altri amici, a Pescia Fiorentina. Il mare all’Ultima Spiaggia o alla Feniglia. Le cene a Capalbio, a Orbetello, nella macchia o alla Strega, alla tagliata di Ansedonia. Al cinema sempre a Orbetello, dove si vedevano le prime visioni prima che a Roma. Le passeggiate a Porto Santo Stefano e Port’Ercole. Le gite al Giglio. La spedizione di “Linea Verde” a Montecristo con Fazzuoli. E poi la fattoria dell’Alberese, le vacche maremmane, i cinghiali, Albinia, Magliano, Scansano, il ponte sull’Ombrone, che una volta ci sorprese in piena e dovemmo tornare indietro. Infine l’ultimo tratto sul mare, lasciata l’Aurelia, passando per Castiglioni della Pescaia fino a Follonica, dove vivevano ancora i miei nonni. Conosco quella strada metro a metro. La potrei fare a occhi chiusi. In un senso o nell’altro. Ogni volta che arrivavo, o a Roma o a Follonica era comunque una liberazione.
Dalla periferia si andava in centro a fare shopping
Quando da via di Bravetta si andava in città, si usavano i mezzi. Si saliva sull’autobus e il bigliettaio staccava quel fogliettino arancione con cui si arrivava a Piazza Irnerio e poi da lì al Vaticano, Largo Argentina, via del Corso. Io mi annoiavo. Mia madre era felice. Per nulla al mondo avrei rinunciato ai giochi con i miei amici stranieri. Quindi il mio “incontro” con Roma non fu dei più positivi. Avevo perso la libertà di giocare per strada, con amici che conoscevo dalla nascita. Non avevo mio nonno che mi coccolava in negozio o al bar, comprandomi gelati buonissimi e aranciate. Mi prendevano in giro a scuola. Ero della Fiorentina quando tutti erano della Roma, della Lazio o peggio della odiata Juventus. Fu allora che cominciò la sfida delle figurine Panini. Ne avevamo pacchi nelle tasche. Durante la ricreazione era tutto uno sfidarsi per acquisirne sempre di più. Altri facevano l’album. Io preferivo collezionarle per giocare.
Nelle vie del centro i pochi taxi nero-verdi si muovevano tranquilli in un traffico inesistente. I tram mettevano allegria nell’incedere traballante sulle rotaie. Cani randagi e bambini accompagnati dalle mamme frettolose attraversavano le strade senza patemi d’animo. Girando con mia madre in centro, mi rendevo conto delle dimensioni enormi di quel posto. Non c’era il mare, come al mio paese, ma un fiume che l’attraversava, per me molto sorprendente, se lo confrontavo con la “marrana” in cui andavamo a cacciare le rane. Oggi il Tevere mi pare comunque un corso d’acqua modesto se lo paragono alla Senna, al Tamigi, al Rio de la Plata, all’Hudson, al Danubio o al Nilo che poi ho conosciuto. In qualche caso prendemmo il taxi. A Piazza San Pietro c’era la folla acclamante Papa Pio XII, che si affacciava alla finestra. Il Papa era una figura lontana, non dialogante e umano come oggi, era ieratico, a metà tra la terra e il cielo. Inarrivabile.
A Fontana di Trevi turisti alle prese con le loro reflex e le monetine da lanciare, che chissà, se già allora, andassero alla Caritas! Tutto era bello ma per me ostile. Lontano dai miei desideri di bambino cresciuto in paese, tra spiaggia e campagna. Ci sono voluti almeno 5 anni, quando ci siamo poi trasferiti prima a via Nomentana e poi in via Poggioli, quartiere universitario, dietro Viale Ippocrate, perché mi rendessi conto che stavo a Roma e che ero fortunato per questo.
Era tutto un altro modo di vivere
Non ho un ricordo di una vita molto differente da quella di oggi e invece lo era. Era tutta un’altra vita. La spesa al negozio invece che al supermercato, le auto parcheggiate senza antifurto. Se cercavi qualcuno c’era il telefono a gettoni e in casa quello fisso coi numeri a disco, dove infilavi l’indice per fare il numero. Ricordo che mettevo 10 lire nell’ascensore per salire e niente per scendere. Ricordo le foto in bianco e nero, gli album, le corse al negozio per stampare il rullino. Ricordo le cartoline postali colorate, coi saluti. Le collezioni dei francobolli che non mi sono mai piaciute. Ricordo che scrivevamo lettere d’amore, lettere ai parenti, lettere d’affari, lettere ai condomini, lettere… a penna, col pennino, con la biro. Scrivevamo e apprendemmo a scrivere. Già quando facevo il capo autore in tv, molti anni dopo mi resi conto che le generazioni dopo della mia non sapevano scrivere. Non sapevano la storia, non sapevano la geografia. Non sapevano.
Ricordo i 45 girti, i mangiadischi, i mangianastri. Ricordo gli LP e le puntine del giradischi. Gli amplificatori, le casse, la radio. “Hit Parade”, “Bandiera Gialla”, “Per Voi Giovani”, sul canale nazionale della Radio, in cui ho lavorato tre anni. Ricordo i ventilatori d’estate, non c’era l’aria condizionata. Ricordo le ore dopo pranzo al bar con mio nonno e i suoi amici a parlare di Anquetil, Gaul e poi Vittorio Adorni. Ricordo le mie biciclette, con cui correvo da Follonica a Punt’Ala e ritorno, 34 km in tutto! Ricordo si parlava di Boniperti e Angelillo, Montuori e Hamrin! Chi entrava in campo non veniva sostituito, almeno mi pare che fosse così. Una volta, più volte, mi portarono allo Stadio Olimpico e una volta anche al Flaminio Una emozione fortissima: Lazio- Fiorentina. Vedere a colori i tuoi beniamini sul campo correre, veri, in carne e ossa! L’urlo dei tifosi e nessuna paura di botte e cori razzisti. Questo si, era bello. Alzarsi e urlare “Gooooollll” con intorno i tifosi laziali che accettano la tua esultanza e quando toccava a loro, li invidiavo io. Oggi dov’è tutto questo? Camminare molto a piedi anche era bello. Mi ricordo che camminavo tantissimo. Andavo a scuola al Tasso e Villa Borghese era la meta delle nostre riunioni con compagni e compagne di scuola. I primi amori, le prime feste a casa, i primi lenti e il twist, i Beatles che arrivarono al teatro Adriano nel 1964, e poi i Rolling Stones, The Animals, Bob Dylan e poi The Doors. Da via Veneto a viale Ippocrate a piedi l’avrò fatta oltre 1.000 volte in tutti e due i sensi. Quando cammini con una ragazza che ti piace, non senti la fatica. Arriveresti a Frascati a piedi! Una volta, a 14 anni, con un amico andammo con due compagne di scuola con cui “filavamo”, così si diceva, fino a Nettuno, in treno o in corriera, non ricordo. Ricordo però il mare, gli scogli, l’emozione di essere soli, noi quattro in una casa, quella del mare dei genitori di Emanuela. La mia ragazza si chiamava Luisa, il padre era un professore di non so cosa a Ginevra. Roba da ricchi, lei viveva a via Cortina d’Ampezzo. Vigna Clara. Tra di noi se ne parlava come fosse Beverly Hills a Hollywood. Io vivevo in un appartamento borghese, lei in una villa con giardino e vista su Roma. Aveva la piscina, molte stanze e la cameriera. Non durò molto. La lasciai per Chiara, a una festa, ballando. Che tenerezza! Era tutto un innamorarsi e un lasciarsi. Prove d’amore.
Rivedendo gli stessi luoghi oggi, ti accorgi che non sono più gli stessi
Ho poi vissuto anni e anni e sono passato mille e mille volte dalle stesse strade, da solo, con amici, colleghi, con le figlie, con le mogli. La prima, fondamentale, poi l’altra, la follia. Mille e mille volte sono ripassato sotto le finestre della scuola, davanti al parco di Villa Borghese dove giocavo a pallone con i compagni della III media. Uno morto a 20 anni, Roberto, non lo scorderò mai. Che pena sapere che non ha vissuto tutto quello che poteva vivere. Altri mi hanno lasciato nel cammino e li rimpiango. Quando si comincia a pensare agli amici che ci hanno lasciato è segno che s’invecchia!
Nel rivedere tutti questi luoghi ho assistito al declino della città. O perlomeno io l’ho vissuto così. Un tempo uscivo e ci incontravamo. Ricordo che quando lavoravo alla radio uscivo con Lanfranco Gambini (un amico discografico) e con Mia Martini, Loredana Berté, Renato Zero magrissimo, ancora vestito con la tuta nera, intervistavo Claudio Baglioni, allora non impegnato, invece Antonello Venditti era sempre in pena ma per le ragazze. Una sera lo ascoltai cantare “Sora Rosa” e capii che avrebbe spaccato, c’era anche De Gregori ma non eravamo al Folk Studio. C’era Carlo Siliotto allora Canzoniere del Lazio prima delle colonne sonore per il cinema. Avevamo la voglia per passare ore assieme divertendoci. Qualche anno prima studiando o giocando a casa di Paolo a via Piave, che non era ancora senso unico. A casa di Enzo a via Emilia, dove il padre faceva il barbiere. Ora le botteghe sembrano sparite. Ci sono uffici anonimi. Linee aeree, studi notarili. Sigle incomprensibili. Non c’è più la panetteria, il salumiere, non c’è il barbiere, il fioraio, l’arrotino non s’incontra più e sono spariti tutti i calzolai. Oggi si compra e si getta. Si va al Centro Commerciale come una volta si andava a viale Libia o a via Cola di Rienzo a cercare negozi di abbigliamento. Oggi -se ci vado- trovo negozi in franchising, cioè vendono tutti la stessa robaccia che dura niente. Tre camice con lo sconto. Dieci cravatte al prezzo di tre. Una volta s’andava a cercare il pezzo giusto. In questo sono rimasto com’ero. Non mi piacciono i franchising. Una volta si comprava per mantenere gli oggetti. Abbiamo perso il contatto, la fisicità, e con questa abbiamo perso via via l’umanità, la capacità di rispettare e di accettare colui che non conosciamo, che però potremmo conoscere. Ricordo che c’erano gli orologi lungo i marciapiedi. Sono spariti. Che ci fermavamo a bere al “nasone” la fontanella tipica romana. Ho letto che ora le vogliono eliminare. Qualche volta m’è capitato di usare il Vespasiano. Ora si va alla toilette del bar, se ti danno la chiave. Ricordo che si comprava il quotidiano. Il Paese sera usciva di pomeriggio. Con l’avvento dei Tg piano piano i quotidiani hanno perso importanza e oggi si legge tutto in Internet. Passavamo ora in libreria, nei reparti Letteratura Italiana, Letterature straniere, Storia, Geografia, Poesia, Viaggi. Oggi è raro se incontri un giovane lì dentro. C’era il Cinema d’Essai, tante e tante più sale cinematografiche ora diventate sale di Bingo, grandi magazzini, supermercati. Probabilmente una volta la vita culturale e sociale era più ricca. C’era più offerta e anche domanda di spettacoli di qualità. Oggi il cinema è tutto violenza o volgarità. Sembrano supermercati anche le sale cinematografiche e dentro l’odore dei pop corn mi dà la nausea. Una volta mi sono trovato in uno di questi centri commerciali alla periferia della città, zona GRA / Bufalotta. Che orrore, ho pensato. Centinaia di genitori coi figli per mano che passeggiano tra due ali di negozi e scale mobili, quando noi camminavamo per via del Tritone e Campo de’ Fiori. Loro, felici, non vanno più in centro da una vita. Io non avrei mai voluto entrare nel Centro Commerciale e ci sono dovuto finire per compare i mobili all’Ikea. Orrore! Abbrutimento. O, come dice Giampiero Mughini: “aborro”! La logica del profitto ha schiacciato tutto e la perdita di cultura ha fatto il resto. Si consumano solo sciocchezze. Si compra e si getta: il telefono, le scarpe, i mobili, l’auto, la fidanzata, la moglie, il marito. Se non ridi stupidamente, se non ti ubriachi e non scopi, la serata è da buttare. Non c’è più eros, non c’è più corteggiamento, non c’è più stare insieme, condividere, “compartir” come dicono in America Latina, non c’è solidarietà, non c’è tolleranza. Domina l’egoismo, la sopraffazione, il pensiero banale, l’ignoranza al potere. Uno screzio per strada si trasforma in botte e può scapparci il morto. Chiunque si sente autorizzato a usare violenza: prima a parole poi a pugni o a testate. La città lo riflette. Una volta c’era chi anadava a Via Veneto. Se ci vai adesso ti viene la tristezza del tempo perduto.
Troppa violenza e troppa ignoranza e la città lo riflette
Oggi stento a uscire di casa quando torno stanco la sera. Mangio qualcosa e guardo la tv, ma non c’è niente da guardare. Ti rifugi nei vecchi film o nelle partite. Il dibattito politico dà il voltastomaco. Un tempo ricordo che si usciva sempre. A casa degli amici, in sei sette o anche di più a giocare a Poker, a Risiko, a chiacchierare di politica e di musica fino alle tre del mattino! Si socializzava. Ricordo di aver partecipato a dei tornei già grande, saranno stati gli anni ’90. Dove sono finiti? Oggi c’è il Burraco si… ma solo in certi ambienti. Negli anni ’70 c’erano le riunioni politiche che alternavo con quelle dell’università. Un periodo ricco, intenso. Noi eravamo popolo. Quella Roma del popolo non c’è più, c’è una città uguale a tante altre, dove persone sole si sfiorano senza conoscersi, si sentono solo al cellulare o nei messaggini. Si danno appuntamenti a tre o quattro giorni che poi disattendono. Sai, all’ultimo non me la sono sentita, ero stanco, mi faceva male la testa, ho avuto un impegno improvviso. E’ venuto un acquazzone, è crollata la strada, c’è stato un tamponamento sulla Nomentana. La città s’è allagata. Sembrano esagerazioni? Ditemi voi se non è cosi?
Non mi piace più e non penso che possa tornare qualcosa di meglio. Per questo ho deciso di cercare altrove l’umanità che non sento più attorno a me.