Salari, referendum e dignità: il ritorno necessario del conflitto sociale
Negli ultimi dieci anni, a forza di rincorrere il consenso a tutti i costi, la contrattazione si è spesso tradotta in compromessi al ribasso

Stazione Termini
I numeri, da soli, raccontano una storia solo a metà. Eppure i dati raccolti dal Wage Tracker (tracciatore di crescita salariale) per il 2024 non lasciano molto spazio all’interpretazione: i salari contrattuali sono aumentati del 4%, ma l’inflazione galoppata tra il 2021 e il 2022 ha lasciato una voragine che non si chiude. A conti fatti, i salari reali nel settore privato non agricolo rimangono più poveri di quasi l’8% rispetto al periodo pre-crisi. Un dato già grave, che si fa ancora più amaro nei servizi privati, dove la perdita del potere d’acquisto tocca il 10,2%.
La fotografia del lavoro: quando l’aumento non basta
Non siamo davanti a una contingenza passeggera. In Germania e in Francia, ad esempio, la contrattazione collettiva ha svolto ancora un ruolo di argine, proteggendo i redditi con aumenti corposi. In Italia, invece, il sistema si è inceppato: contratti che si trascinano per cinque anni, assenza di meccanismi di indicizzazione reale, e una copertura che, nel tempo, ha lasciato scoperte ampie fasce di lavoratori.
Lo scenario che si profila non è confortante. Il Wage Tracker già prevede un raffreddamento della dinamica salariale: dal +4,3% del 2024 si scenderà a +3,3% nel 2025 e ancora meno nel 2026. Nel frattempo, l’emorragia di giovani – 156.000 espatriati italiani solo nel 2024 – sembra ormai essere diventata un tratto strutturale del mercato del lavoro italiano. Una perdita di competenze e energie che pesa come un macigno sul futuro economico e sociale del Paese.
Il ritorno del conflitto: perché non è una minaccia
In questo contesto arriva la sfida referendaria lanciata dalla CGIL: cinque quesiti che toccano nodi cruciali del diritto del lavoro, dai licenziamenti agli appalti, passando per la precarietà e la cittadinanza. Non è solo una battaglia simbolica. È la manifestazione di un bisogno profondo: rimettere al centro il valore del lavoro e il rispetto della dignità di chi lavora.
Il sostegno, nonostante i distinguo, è ampio. Dalla politica – Alleanza Verdi-Sinistra, Movimento 5 Stelle, settori del PD – fino a pezzi importanti della società civile. Ma le divisioni non mancano: la UIL preferisce percorrere la via della trattativa, temendo che il referendum possa irrigidire i rapporti tra le parti sociali. La CISL è invece apertamente contraria, bollando l’iniziativa come “ideologica”. Dal fronte opposto, imprese e centrodestra gridano al pericolo per la stabilità produttiva.
Eppure, l’idea che il conflitto sia di per sé distruttivo è fuorviante. Negli ultimi dieci anni, a forza di rincorrere il consenso a tutti i costi, la contrattazione si è spesso tradotta in compromessi al ribasso, utili solo a garantire una fragile pace sociale. Una pace che ha premiato imprese poco innovative, spesso incapaci di affrontare sfide vere di produttività e competitività senza il sostegno di incentivi pubblici o il ricorso a manodopera a basso costo.
Rigidità o flessibilità?
Le paure che accompagnano il dibattito referendario non sono del tutto infondate. Reintrodurre causali più stringenti per i contratti a termine potrebbe, in effetti, penalizzare settori che vivono di stagionalità. Ripristinare l’obbligo di reintegro generalizzato rischia di spaventare soprattutto le piccole imprese, timorose di contenziosi paralizzanti.
Ma il vero errore è credere che il problema sia solo questo. Non si tratta di scegliere tra una rigidità che blocca e una flessibilità senza regole. Si tratta di ricostruire un sistema di regole e tutele che sia capace di evolversi con l’economia e con i bisogni delle persone.
L’alternativa non può essere un mercato del lavoro fondato sull’incertezza permanente, su salari che rincorrono senza mai raggiungere l’inflazione, e su diritti ridotti a optional.
La verità più scomoda è che il conflitto, se incanalato e gestito, può essere motore di innovazione sociale. Non è un incidente di percorso da evitare. È l’espressione fisiologica di una società che riconosce, dentro le sue contraddizioni, la necessità di trovare nuovi equilibri.
Una nuova stagione possibile
Il quadro attuale impone di superare la narrazione di un conflitto da esorcizzare a tutti i costi. Servirebbe, invece, uno sforzo collettivo per riabilitare il valore della contrattazione, quella vera: tempestiva, coraggiosa, capace di rimettere davvero sul tavolo la questione salariale e la qualità del lavoro.
Non basta ritoccare qualche punto percentuale. È necessario un cambio di paradigma: salari agganciati ai dati reali dell’inflazione, meccanismi di tutela dell’occupazione calibrati sulle trasformazioni produttive, un patto rinnovato tra capitale e lavoro fondato sulla giustizia e sulla dignità.
Se questi referendum riusciranno anche solo a riaprire un dibattito pubblico consapevole su questi temi, non saranno stati inutili. Saranno stati, al contrario, il primo passo per riportare il lavoro a essere ciò che deve essere: non un semplice costo da contenere, ma la base sulla quale costruire un futuro più giusto per tutti.