Scuola, la possibilità di “chiusure facili” da Covid-19 scatena le polemiche
Col nuovo Dpcm la DaD può scattare se vi sono 250 casi ogni 100mila abitanti. Protestano gli addetti ai lavori, ma per la scienza la didattica in presenza fa aumentare l’indice Rt
Come periodicamente accade, la scuola è tornata al centro del dibattito pubblico. E, come praticamente sempre accade, ha scatenato una ridda di polemiche. Stavolta il casus belli è stato il primo Dpcm anti-Covid del Governo Draghi, accusato di aver introdotto la possibilità di “chiusure facili” degli istituti. Rispolverando peraltro la surreale dicotomia tra tutela della salute e diritto all’istruzione.
La scuola nel nuovo Dpcm
I Presidenti delle Regioni o delle Province autonome potranno disporre la chiusura degli istituti scolastici. È quanto prevede il nuovo Dpcm, in riferimento alle aree «nelle quali l’incidenza cumulativa settimanale dei contagi sia superiore a 250 casi ogni 100.000 abitanti». Ma anche «in caso di motivata ed eccezionale situazione di peggioramento del quadro epidemiologico».
È questo il parametro della discordia che fa discutere gli addetti ai lavori. Secondo le stime degli esperti, infatti, le ultime disposizioni potrebbero far raddoppiare il numero degli alunni che dall’8 marzo dovranno seguire le lezioni da casa.
Si parla di 6 milioni di ragazzi, contro i circa tre che al 1° marzo risultano già impegnati nello studio per via telematica. Il cui entusiasmo è testimoniato dai bambini napoletani che hanno fatto lezione in un bosco per protestare contro l’apposito provvedimento del Governatore campano Vincenzo De Luca.
Eppure, il neo-Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha lamentato che «la scuola non chiude, non ha mai chiuso. Gli insegnanti sono sempre stati presenti». Aggiungendo che «la parola DaD non mi piace, non è Didattica a Distanza, ma di avvicinamento e la facciamo solo in situazioni estreme».
Magari sbaglieremmo, ma dubitiamo sia una mera questione semantica. Non foss’altro perché i danni psicologici, sociali e anche di apprendimento causati dalla DaD sono ben noti.
In qualche modo, poi, ci dà ragione anche la precedente titolare del MI Lucia Azzolina. Secondo la quale, «leggendo il Dpcm una cosa è chiara: oggi è molto più facile chiudere le scuole».
Il punto focale della questione, però, è un altro. A un livello più generale, infatti, la partita si gioca sul filo di un sottilissimo equilibrio: che non può prescindere (ahinoi) da considerazioni di carattere sanitario.
Cosa dice la scienza
«Ci sono numerosi studi relativi a decine e decine di Paesi che dimostrano che il passaggio dalla Didattica a Distanza a quella in presenza fa crescere l’indice Rt del 25%, mentre il passaggio inverso lo fa abbassare nella stessa misura». Lo ha dichiarato Giovanni Sebastiani, matematico in forza all’Istituto per le Applicazioni del Calcolo “Mauro Picone” del CNR. Un dato rispecchiato, peraltro, dal caso dell’Emilia-Romagna, dove a febbraio i contagi tra le aule sono cresciuti del 70% rispetto al mese precedente.
«Il problema non è la scuola in sé, che è sicura, quanto il complesso delle attività connesse, come i trasporti e la stessa socialità» ha precisato ancora Sebastiani. In barba all’ex titolare del Mit Paola De Micheli, secondo cui i mezzi di trasporto avevano «contribuito nella misura dello 0,1% al contagio da coronavirus».
Amenità che del resto fa il paio con una, più o meno coeva, della Azzolina. La quale sosteneva che «l’apertura delle scuole non ha avuto una parte determinante sull’aumento dei casi» di Covid-19.
Come a dire che c’è chi presenta i numeri, e poi c’è chi li dà. D’altronde, forse mai come in questa occasione è lecito affermare che la… classe non è acqua.