Sede impedita, fioccano gli indizi sul caso che sta terremotando la Chiesa
Benedetto XVI parlò di rinuncia all’esercizio attivo del ministero: dettaglio che ne invalida le (eventuali) dimissioni, ma è coerente con l’impossibilità a esercitare l’ufficio pastorale
Torniamo a occuparci della querelle sulle “dimissioni” di Benedetto XVI, la cui Declaratio potrebbe essere stata erroneamente interpretata come dichiarazione di rinuncia anziché di sede impedita. Gli indizi in tal senso continuano a moltiplicarsi, anche grazie alla possibilità di una rilettura retroattiva di eventi già noti nell’ottica della proposta alternativa. Come è il caso delle parole pronunciate da Papa Ratzinger in occasione della sua ultima Udienza generale.
L’ultima Udienza generale di Benedetto XVI
«Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo». Così si esprimeva Papa Benedetto il 27 febbraio 2013, durante il suo ultimo incontro pubblico con i fedeli raccolti in piazza San Pietro.
Affermazioni in linea con quelle della celeberrima Declaratio. «Declaro me ministerio Episcopi Romae […] renuntiare», scriveva infatti Benedetto XVI, ovvero “dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma”. Questa formulazione, tuttavia, crea un enorme problema giuridico, rimarcato tra l’altro dall’avvocatessa colombiana Estefanía Acosta nel suo libro Benedict XVI: Pope “Emeritus”?
Nel 1983, infatti, Giovanni Paolo II promulgò l’attuale Codice di diritto canonico. Da allora, l’ufficio papale si considera composto di due enti: il munus (il titolo divino di Pontefice) e il ministerium (l’esercizio pratico del potere). Semplificando al massimo, corrispondono rispettivamente all’essere il Papa e al fare il Papa.
Secondo il Canone 332 §2, un Vicario di Cristo intenzionato ad abdicare deve rinunciare al munus. Dettaglio di cui Joseph Ratzinger non può non essere consapevole, visto che 38 anni fa, da porporato, era già il braccio destro di Karol Wojtyła. Eppure, tanto nella Declaratio quanto nell’ultima Udienza generale, ha certificato l’abbandono del ministerium, dell’esercizio pratico e attivo del potere papale. Aspetto sottolineato anche dal Cardinale Angelo Sodano che, nel discorso a caldo dopo l’annuncio di Benedetto XVI, parlava di «fine del servizio pontificale».
Non “rinuncia”, bensì “sede impedita”
Come ha argomentato il collega di Libero Andrea Cionci, sarebbe come se la Regina Elisabetta II annunciasse l’intenzione di lasciare il trono al Principe Carlo. Salvo mantenere la Corona e le prerogative regali, proprio come Papa Ratzinger ancora indossa la talare bianca, vive in Vaticano, si firma P.P. (Pater Patrum), impartisce la benedizione apostolica. E, come da nostra recente intuizione, ammette l’eventualità di essere l’ultimo Papa «come l’abbiamo conosciuto finora», quale è designato nella cosiddetta profezia di Malachia.
Vari giuristi (inclusi la stessa professoressa Acosta e il docente spagnolo Antonio Sánchez Sáez) hanno evidenziato che l’errore sopracitato invalida completamente le “dimissioni” del teologo bavarese. Sempre che di dimissioni si possa realmente parlare.
La questione, infatti, assume connotati completamente diversi se si considera la Declaratio come attestazione di (Santa) Sede impedita. Che il Canone 412 riconosce quando il Vescovo diocesano è impossibilitato a esercitare l’ufficio pastorale «a motivo di prigionia, confino, esilio o inabilità, non essendo in grado di comunicare nemmeno per lettera con i suoi diocesani». Circostanze che, come abbiamo illustrato pochi giorni fa, si verificarono (almeno in parte) otto anni fa. Quando il Pontefice tedesco si trovò assediato da nemici interni (la Mafia di San Gallo), esterni (il blocco dei bancomat vaticani), e con la posta privata data alle stampe (lo scandalo Vatileaks).
La (Santa) Sede impedita
Questo scenario, naturalmente, terremoterebbe la Chiesa cattolica: ma, a oggi, è l’unica coerente con una Declaratio che altrimenti – lo ripetiamo – sarebbe giuridicamente nulla. Come gli autorevoli esperti di diritto summenzionati hanno dimostrato utilizzando, paradossalmente, proprio le argomentazioni di alcuni canonisti “bergogliani”. Su tutti, Monsignor Giuseppe Sciacca (Segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica) e la professoressa cesenate Geraldina Boni.
In estrema sintesi, i due accademici sostengono che non esistono due Papi né un Papato “allargato” (con un membro attivo e uno contemplativo). Il Papa è uno solo, come tutti ripetono dal 2013, compreso Benedetto XVI – anche se non ha mai specificato a chi si riferisse. Non esiste nemmeno il Papa emerito, tanto che solo ora si sta cercando di normare quest’istituto.
Fin qui potrebbe ancora andare bene, ma adesso arriva la coppia munus/ministerium. I quali, pur essendo enti ontologicamente distinguibili, sono inseparabili nella persona del Successore di Pietro. Inoltre, non sono sinonimi in senso giuridico – il che esclude che l’affaire possa avere una soluzione meramente semantica. Papa Ratzinger, nella Declaratio, ha utilizzato il termine munus proprio in quest’accezione giurisprudenziale. Ma – e questo è il punto decisivo – ha rinunciato invece al ministerium.
Incredibilmente, da queste premesse il Vescovo Sciacca e la professoressa Boni deducono la legittimità delle dimissioni di Benedetto XVI. Se sia o meno una conclusione ragionevole, lo potrà tranquillamente giudicare il lettore.