Si tenga i suoi proclami, gentile signor Bergoglio. La politica è un’altra cosa
Il papa parla a Bari e attacca i leader populisti. Sciorinando i soliti ritornelli sugli anni Trenta e i “razzisti” seminatori di odio
Ancora?
Certo: ancora. Come è accaduto ripetutamente in passato e come avverrà chissà quante altre volte in futuro. Le singole affermazioni possono ripetersi pressoché identiche o cambiare di volta in volta, ma il filo conduttore è il medesimo: via libera agli immigrati, nel presupposto che tutti gli esseri umani siano “fratelli” e che perciò i confini tra stato e stato non possano equivalere a delle barriere.
Parola della Chiesa. O meglio, del Vaticano.
L’ultimo fervorino è andato in scena ieri, a Bari. Dove papa Francesco si è recato per un incontro promosso dalla Cei e intitolato, appunto, “Mediterraneo frontiera di pace”. Per un po’, riferiscono le cronache, si è attenuto al testo scritto. Poi è andato a braccio. E a sentire il Corriere della Sera è stato allora, improvvisando (ammesso che improvvisasse davvero, anziché parlare all’impronta ma muovendosi sui binari di una digressione già messa in conto e accuratamente preparata), che ha detto le “cose più interessanti”.
Che sarebbero queste: «A me fa paura quando ascolto i discorsi di alcuni leader delle nuove forme di populismo: mi fa sentire discorsi che seminavano paura e odio nella decade del ’30 del secolo scorso». I riferimenti storici sono lampanti, ma l’articolista del Corrierone si precipita a renderli espliciti: quelle considerazioni “evocano fascismo e nazismo”.
Il solito repertorio, insomma. Se non ti allinei al Pensiero Unico odierno e al suo umanitarismo di facciata vieni prontamente demonizzato. Cercando di inchiodarti a dei paralleli storici che sono palesemente infondati ma che a forza di essere ripetuti tendono ad accreditarsi come veritieri. O addirittura indiscutibili.
Le analogie tra gli anni Trenta del Novecento e la realtà attuale di Germania e Italia sono praticamente nulle, e vedere in Salvini un novello Mussolini, e figuriamoci un Hitler redivivo, è roba assurda. O quantomeno da bocciatura in tronco a un esame di Storia. Non all’università. Alle medie superiori. E magari anche a quelle inferiori.
L’unico punto di contatto, più apparente che effettivo, è il riemergere su vasta scala delle rivendicazioni di un’identità nazionale da preservare. Ma al solo scopo, oggi, di salvaguardarla da troppo massicci e troppo rapidi afflussi di immigrati che appartengono a culture del tutto diverse. Moltitudini la cui integrazione viene data per certa, con la tipica arroganza occidentale che si illude di poter ammansire e ammaestrare chiunque grazie alle sue seduzioni tecnologiche e consumistiche, ma che così sicura non è. E nemmeno del tutto a torto, dal punto di vista di chi arriva qua senza aver abiurato le proprie origini.
La differenza abissale, invece, è che quelle di un secolo fa erano spinte espansive rivolte all’esterno. In un’epoca, peraltro, in cui le guerre di conquista e il colonialismo erano eventi ordinari e diffusissimi. A cominciare dall’Impero Britannico.
Il nazionalismo di oggi, al contrario, è prettamente difensivo.
Non c’è nessuna pretesa di dominare gli altri a casa loro – come semmai fa il neocolonialismo economico dei liberisti, quand’anche in salsa pseudo solidale – ma solo la volontà di non essere costretti a una convivenza forzosa e indesiderata con delle masse di stranieri.
Stranieri non solo per passaporto. Ma per sensibilità, convinzioni, stili di vita e insegnamenti religiosi.
Dimmi che alleati hai…
C’è una contraddizione di fondo, tra gli interessi della Chiesa e quelli delle singole nazioni. Dei singoli popoli.
Una contraddizione di cui non si parla a sufficienza e che invece andrebbe chiarita in modo inequivocabile e definitivo, per poi tenerla sempre ben presente: la Chiesa ha intenti di proselitismo che prescindono sia dalle appartenenze etniche, sia da quelle statali. Anche se poi ha bisogno di appoggiarsi a delle autorità politiche.
In questa ricerca di sempre nuovi adepti, o almeno di “fedeli” nell’accezione a dir poco accomodante che si è venuta affermando negli ultimi decenni, l’ecumenismo fuoriesce dall’ambito prettamente religioso che gli era proprio e tracima in quello della politica. I cui presupposti e i cui scopi sono affatto diversi.
Per il cristianesimo gli esseri umani sono tutti uguali, ai fini dell’indottrinamento. Tutte pecorelle del gregge di Dio (la maiuscola è nell’originale…) da avviluppare nella medesima obbedienza. E quindi tutte intercambiabili, in ogni luogo della Terra, purché sottomesse ai voleri della Chiesa. O in predicato per diventarlo: mansuete in questo mondo nel presupposto che la ricompensa arriverà nell’Aldilà.
Gli Stati, evidentemente, si basano su logiche completamente diverse. Che mirano per definizione a privilegiare le relative popolazioni e che, perciò, non possono affatto rinunciare a una robusta dose di egoismo, tanto collettivo quanto individuale. Tutt’al più, possono temperarne le dinamiche inscrivendole all’interno di regole condivise. E lasciando dei margini per una solidarietà collaterale e limitata, ma solo a patto che non interferisca con gli interessi, sia materiali sia psicologici, dei propri cittadini.
La Chiesa fa finta di non saperlo. O di non capirlo. In modo da non dover affrontare la questione in maniera concettualmente rigorosa.
Una “provvidenziale” ipocrisia che le permette di non entrare in rotta di collisione con il modello socioeconomico dominante. Che proprio cristiano non è, visto il suo assetto iper competitivo e perciò agli antipodi della fraternità evangelica, ma con cui il Vaticano convive senza alcun problema. E senza nessun vero attrito.
Giusto qualche richiamino ogni tanto sugli eccessi del materialismo, tra smania di profitto ed eccessi di consumismo, e le dissonanze finiscono lì. Sul piano delle chiacchiere, se ci fosse bisogno di precisarlo.
Quelli sulla sobrietà sono auspici.
Quelle contro il sovranismo sono invettive.
Il Vaticano se li sceglie con cura, i propri alleati.