Silvia Romano, da neuropsichiatra ecco perché è difficile empatizzare con lei
Il dolore di una persona rapita merita rispetto. Ma ci sono elementi che hanno reso difficile entrare in empatia con la Romano
Silvia Romano, la cooperante tra odio e amore la cui vicenda ha spaccato l’opinione pubblica. Innanzitutto ritengo che poca gente abbia sperimentato un periodo di grandi sofferenze come (non) racconta lei. Certamente ha vissuto tanti mesi, interminabili giorni, in una situazione traversata e drammatica fatta di terrore ed estraneamento dalla realtà. Quindi rispetto per il dolore innanzitutto.
Da neuropsichiatra dico che sì, questo crea quella sindrome di Stoccolma di cui tutti parlano, una sorta di idealizzazione del rapitore che serve a non soccombere per paura dello stesso. Chissà se in questa esperienza così scioccante avrà sublimato quello che cercava: situazioni estreme, emozioni forti, solidarietà per popoli lontani, avventura, paesi diversi dal suo. Non sta a noi saperlo, però devo dire che per come sono andate le cose è successo di tutto perché la sua situazione del suo ritorno non fosse simpatica.
Intanto la poco chiarezza su quella che considero una fuga della realtà italiana. È partita con una ONG marchigiana senza garanzie per recarsi nella scuola di un villaggio pericoloso, e che sapeva essere una “zona sensibile”. Quello che gli italiani si domandano è perché cercare di lenire la sofferenza in un luogo così lonatno quando ci sono poveri, disperati ed emarginati anche nel nostro paese. Dalla nonna sotto casa, ai bimbi orfani, immigrati soli, disabili senza assistenza. Io rispetto ma non poso fare a meno di domandarmelo:
È partita per il bene davvero dell’altro o per un’avventura forte in un luogo esotico e lontano? Insomma davvero per gli altri o in fondo più per sé stessa?
Silvia Romano, l’abito e il riscatto
Il discorso del costo del riscatto è crudo e cinico ma Silvia non è certo stata riportata a casa salva per merito dell’intelligence italiana. Poi semmai grazie all’intervento, comunque interessato, di quella turca. La situazione eccezionale della pandemia ha fatto il resto: “Abbiamo così poco denaro, aziende fallite, albergatori finiti, ristoratori senza speranze di ripresa, perché pensare a lei”, si chiedono molti. Il ritorno con palco, la stucchevolissima rappresentazione del presidente del Consiglio e degli Esteri. Una conferenza stampa su cose che non conoscono affatto. Hanno contribuito, insieme al distanziamento fisico non rispettato.
L’abito tradizionale islamico crea per l’appunto una distanza, viene interpretato come simbolo di una nuova appartenenza ad un modo di vivere che non sentiamo affatto vicino al nostro. Un mondo minaccioso e ostile che è quello dell’estremismo islamico. In ogni caso, come dice Storace in modo sorprendente la solidarietà non è di parte. Ogni vita umana è sacra, inviolabile, preziosa e quindi alla fine quella di Silvia è una storia finita bene.