Smart working fra trampolino e buco nero. A chi tocca essere smart?
Lo smart working è sembrato una panacea all’inizio della pandemia ma ora sta rivelando i suoi lati ambigui se non oscuri…
Fortune e sfortune dello smart working.
Quando nel marzo 2020 ci si accorse che il virus faceva sul serio, sopravvenne la paura. Dei cittadini, di trovarsi esposti al rischio di contagio nelle condizioni peggiori, quelle del lavoro spalla-a-spalla o faccia-a-faccia, in spazi ristretti. Dei datori di lavoro, di ritrovarsi su un banco degli imputati, materiale o quantomeno morale. Dei governi, per le conseguenze materiali e immateriali di una diffusione incontrollata del contagio, in assenza di dati certi sulla natura del virus.
Lo smart working sembrò la risposta buona per tutti. Magari l’unica; una luce nel buio. Tanto che in Italia la CGIL spinse molto sui Comuni e le Amministrazioni perché lo adottassero subito; tranne poi ad avanzare una valanga di distinguo ed eccezioni postume, nel sospetto che il tutto avvenisse in un vuoto normativo, a discapito finale dei lavoratori.
La metafora della rana bollita
Ma soprattutto, per molti osservatori il lockdown poteva inaspettatamente rappresentare la discontinuità che ci voleva perché il sistema “reagisse”. Conoscete la metafora della rana bollita? È un po’ truculenta ma rende l’idea: una rana nuota tranquillamente in una pentola d’acqua fredda. Sotto viene acceso il fuoco, che a poco a poco rende l’acqua tiepida; confortevole, per la rana, che continua a nuotare.
La temperatura sale ancora, lentamente, quasi da non accorgersene; forse un po’ più di quanto la rana gradirebbe, ma accettabile; nuota. A un certo punto però l’acqua diventa decisamente troppo calda; la rana lo avverte, ma tutto quel tepore e poi calore l’ha infiacchita, non ce la fa a reagire. Morale della favola: se la “rana” (noi, il mondo del lavoro, la politica) fosse stata tuffata all’improvviso in una pentola d’acqua calda, con un balzo istintivo ne sarebbe saltata fuori; ma scivolando “lentamente” in acque non più tollerabili (ore perse negli spostamenti, alti costi fissi aziendali, inquinamento da traffico…) istante per istante non se ne accorge, finché non è tardi: resta bollita.
Per alcuni questa discontinuità a sorpresa – che avremmo preferito non avere in questi termini – può salvare la rana, inducendola a saltar fuori. A beneficiarne di più proprio il lavoro, in tutti i suoi soggetti: tempi morti di trasferimento aboliti, grazie alla tecnologia digitale; città più pulite e respirabili (la quota-traffico dovuta al lavoro ne è la fetta più grande. Considerate che molti di noi, costretti a raggiungere il posto di lavoro in tempi di pandemia, sceglierebbero di abbandonare il mezzo pubblico in favore dell’auto, e quindi…). Quest’ultimo incremento andrebbe a incidere sulla sicurezza: auto, moto, monopattini (su cui si registra già un incidente al giorno).
Lo choc benefico
Ma non basta: il ricorso forzato allo smart working può rappresentare lo choc benefico utile a superare il “divide” conoscitivo che ancor oggi affligge la nostra società: costretti a familiarizzare con funzionalità software finora scansate, o addirittura snobbate con compiacimento, molti cittadini “(semi)analfabeti digitali” entrerebbero finalmente in quel circuito virtuoso da anni se non decenni invocato dalle fasce più avanzate della società come strumento di risparmio economico e di sveltimento delle procedure amministrative. Questo vale anche per gli impiegati che quei servizi erogano, con conseguente beneficio per il pubblico e per loro stessi.
E non dimentichiamo che un tracciamento informatico delle pratiche romperebbe parecchio le uova nel paniere alla corruzione, sia a livello macro che di sottobosco. Non ce ne stiamo lamentando da decenni?
Smart working e qualità del risultato
Lavorare a distanza dal posto di lavoro – per le attività che lo consentono, ovviamente – significa anche essere valutati non sulla base della presenza fisica (che dice poco) ma della qualità del risultato. È il merito, ex mala parola oggi in via di riabilitazione. Secondo uno studio Bocconi eseguito su due gruppi uguali – uno in smart working l’altro no – i primi su 9 mesi hanno registrato 6 giorni in meno di assenza, il 4,5% in più di rispetto scadenze, +5% di efficienza.
Una pericolosa arma in mano al datore di lavoro? Pare di no, se al Politecnico di Milano un’indagine ha rivelato un 76% di soddisfatti contro un 55% fra gli altri. Vedremo gli esiti dei 350.000 questionari che in tutt’Italia i mobility manager hanno diffuso tra i lavoratori.
Insomma, sulle prime era sembrata una panacea senza controindicazioni. Ma poi, col tempo, la percezione è cambiata.
Il problema è sorto non tanto in ambito privato quanto con la Pubblica Amministrazione e molti Enti o loro eredi, il cui personale per svariate ragioni note non si rivela sempre ricettivo nei confronti del nuovo. L’accusa del pubblico e di molte aziende è che, invece di varare programmi di efficiente conversione delle competenze del personale – quelle Amministrazioni utilizzino ormai la formula magica Smart Working come foglia di fico con cui coprire qualunque ritardo e inadempienza. “Che volete, è in smart working”. È di oggi l’ultima invocazione: di Nicolò Rebecchini, presidente dei costruttori romani: lamenta procedure di appalto che scadono per decorrenza dei termini, mentre le pratiche sono impigliate in qualche invisibile percorso carsico; difficoltà di reperire interlocutori “immateriali”… fino a fargli invocare il ritorno alle presenze fisiche negli uffici.
Altri dubbi: privacy, sicurezza e malattia
Poi sono insorti i custodi della privacy. Non c’è dubbio che le modalità remote offrano il fianco, se non opportunamente blindate, ad attacchi tecnologici malevoli. Poi la sicurezza: la tutela giuridica ed assicurativa del lavoratore a casa è tutta da definire. Per non parlare, al riguardo, di tutti i nuovi aspetti legali e contrattuali emersi e che emergeranno, finora glissati per via dell’emergenza. E come si gestisce la malattia?
Curiosamente ma fatalmente, quello che apparentemente è a favore della gente non lo è per tutti: se molte meno persone lavorano fuori casa, che ne è di chi vive sugli introiti della pausa-pranzo? Mense, ristoranti, tavole calde, bar, chioschi…
Vedete, il discorso è complesso, tutti hanno le loro ragioni e chiaramente e comprensibilmente ciascuno si schiera a difesa delle proprie. Il fatto è che la responsabilità – in positivo o in negativo – non sarà dello smart working, ma di chi è chiamato ad attuarlo, rendendolo un trampolino o un buco nero. Forse la lancetta punta più sul quadrante dei decisori, anche se ciascuno di noi deve sentire di avere la sua parte (e gli conviene) nella riuscita dell’operazione.
Come andrà a finire?
Come andrà a finire? Come sempre, in medio stat virtus. Che le tecnologie a distanza acquisteranno sempre più spazio nella nostra vita è un fatto irreversibile e, se usato bene, giusto e buono. Combatterlo è inutile e di retroguardia, indifendibile. Purché si tengano sempre a mente alcuni punti fermi:
- i giudici finali diventino davvero i cittadini, un risultato si misuri sulla soddisfazione dei loro bisogni;
- Stato ed aziende investano su nuove competenze;
- la trasformazione non pretenda di essere talebana, ma mista, lasciando la presenza fisica là dove fornisce un valore aggiunto, oseremmo dire umanistico, ovvero legato allo specifico dell’essere umano che nei casi critici fa la differenza;
- si metta mano alla produzione di procedure software stabili e verificate, pur rendendo onore ai valorosi che hanno piegato in poco tempo le funzionalità del software esistente alle nuove esigenze.
E intanto c’è chi, credendoci, ha avviato importanti progetti di ripensamento degli ambienti di lavoro, dovunque siano situati. Guardare per credere gli studi in atto da parte, per esempio, dello Studio Zaha Hadid e di Pininfarina.