Storia dei messaggi d’amore: dalla cabina telefonica a WhatsApp
All’epoca per telefonare occorreva il gettone telefonico che si acquistava al costo di 200 lire l’uno per i nostri messaggi d’amore
Quando eravamo adolescenti, verso la metà degli anni 80, noi ragazzi usavamo a andare in vacanza quasi sempre in campeggio. Costava poco, a due passi dalla spiaggia e la tenda era una potenziale alcova. Chi era a Milano andava in campeggio a Napoli, dall’Abruzzo si optava per il litorale laziale e noi romani montavamo le tende tra Palinuro e Scalea.
Nascevano, in quelle estati, amori travolgenti ma destinati a sfumare in breve dopo il ritorno dalle vacanze. Perché le coppie figlie dell’estate erano, forse per il gusto dell’esotico e del diverso , quasi sempre formate da innamorati che abitavano a centinaia di km l’uno dall’altra.
Cosicché finita la parentesi del camping, si assisteva ad un fenomeno quale solo Piero Angela, in una puntata de il Mondo di Quark in onda all’epoca alle ore 14 su Rai 1, avrebbe potuto e saputo descrivere: branchi di adolescenti, come tanti gnu attirati da una pozza d’acqua in Namibia, accalcati davanti al totem della comunicazione di quegli anni.
La cabina telefonica
Questo fenomeno si manifestava a causa degli amori distanti, freschi e inebrianti i quali, prima che la natura ne facesse pian piano sfumare l’aroma come un vino lasciato senza tappo, continuavano a vivere e ad esprimersi per alcuni mesi in orari e luoghi ben precisi: dalle ore 22 presso le cabine telefoniche pubbliche.
E già, perché non si poteva telefonare alla propria fidanzata da casa. Uno, perché i genitori dopo pochi minuti di interurbana avrebbero immediatamente applicato il lucchetto al telefono vietando tassativamente ulteriori chiamate. Due, perché c’era comunque la propria privacy da tutelare e la cabina telefonica era un microcosmo all’interno del quale ci si poteva dire di tutto, dalle frasi più romantiche a quelle più oscene, protetti dall’alluminio e dal vetro della struttura.
Tariffe telefoniche e l’uso dei gettoni
L’orario era dovuto al fatto che le tariffe telefoniche dell’allora Sip si abbassavano notevolmente a partire dalle dieci di sera. Ma per noi adolescenti e per quegli anni, se pensiamo ad oggi, erano comunque molto care. Naturalmente la durata della conversazione dipendeva dalla quantità di gettoni a disposizione. Per i più giovani che stessero leggendo questo articolo, è necessario fare un po’ di chiarezza su come funzionassero le cabine telefoniche pubbliche in quegli anni.
All’epoca per telefonare occorreva il gettone telefonico che si acquistava presso i negozi al costo di 200 lire l’uno (il prezzo di un ghiacciolo). Per le telefonate urbane bastava un gettone mentre per le interurbane ne occorrevano molti. Si usava conservare i gettoni in sacchetti di tela, facili da trasportare. Poco prima delle ore 22 , grazie anche al clima mite delle sere romane d’autunno, di fronte alle cabine telefoniche si formavano delle file di innamorati, disperati o entusiasti (inizio o fine storia d’amore) che attendevano il proprio turno per comunicare con il proprio amore lontano.
Quanto durava la telefonata
Non vi era un limite di tempo stabilito per la durata delle telefonate (a parte il numero dei gettoni a disposizione), ma si capiva quando era Il momento di cedere la cornetta a chi attendeva il proprio turno in fila. Lo si intuiva dagli sguardi minacciosi, da qualche insulto o da chi, non potendo più attendere, bussava nervosamente sulla cabina. Capitava a volte che qualcuno, impegnato nella telefonata, si accendesse una sigaretta dopo l’altra all’interno della cabina così che il fumo finiva per avvolgerlo completamente fino a farlo scomparire in una nebbia impenetrabile agli sguardi. Difficile capire cosa accadesse all’interno.
Quando le finanze scarseggiavano, quando le parole al telefono non venivano fuori per pudore o timidezza, o quando la relazione iniziava a tramontare e la si voleva pian piano lasciar morire , si optava per la lettera. Molto più economica di una telefonata. Ci si esponeva di meno in caso di dichiarazioni di addio, utilissima per i più vigliacchi ma più efficace per i meno scaltri. Romantica per l’attesa che comportava e nella forma. I primi scambi epistolari, quando le storie erano ancore spumeggianti, erano impregnati di romanticismo, di promesse e di profumo che le ragazze versavano, in poche gocce di quello personale, sulla carta.
Il bacio sulla lettera a sigillo d’amore
Alcune firmavano la lettera apponendovi un bacio col rossetto a mo’ di sigillo. L’attesa era spesso interminabilmente straziante ma al contempo emozionante. Ogni mattina, uscendo di casa, il primo sguardo era rivolto alla cassetta della posta e quando finalmente arrivava la busta tanto desiderata, il profumo che ne usciva nel solo aprirla evocava ricordi e risvegliava i sensi e faceva volare le farfalle nello stomaco.
Quando la frequenza del numero di lettere settimanali si riduceva e il profumo lasciava il posto all’odore della carta e dell’inchiostro e non vi era più l’impronta delle labbra, era segno che dall’altra parte l’interesse stava scemando .
I ragazzi meno istruiti, meno spigliati, meno ispirati, chiedevano aiuto a un amico con più esperienza e più brillante in termini di comunicazione con l’altro sesso affinché li aiutasse a scrivere e a far bella figura.
Non mancavano fallimentari tentativi di collaborazione alla Totò e Peppino, dagli esiti improbabili.
T’amo e non t’amo +nel giro di un messaggio
C’era anche chi, senza vergogna alcuna, riciclava lettere d’amore pubblicate sulle riviste della nonna o della mamma, come Grand Hotel o DuePiù, spacciandole per proprie.
Attendere le dieci di sera per telefonare da una cabina pubblica o scrivere una lettera attendendone la risposta significava speranza, pazienza, impegno, costanza. Il tempo aveva un sapore e lo si poteva contare dandogli un valore. Oggi le storie nascono e finiscono fra messaggi audio al doppio della velocità, a colpi di click sulla tastiera di un telefonino, economizzando anche nella grammatica.
“Ke fai? C vediamo ?” – “No. nn t amo +“.
“L’amore è un continuo domandare, ma è anche trepida attesa”. (Francesco Alberoni)